“La metafisica e i cartoon spiegati a mio figlio” di Angelo Mazzotta

Figlio mio, mi raccomando, mo’ che inizi le scuole medie, occhio a non farti influenzare da cattive compagnie… A scuola possono girare cose “strane” da cui è meglio tenersi alla larga… Ho capito, papà, ti riferisci alla “Drrrroga” (rafforzativo siculo)!!! Ne ho sentito parlare… ma non ne ho bisogno!

Bene, alla tua età io ero ancora un mocciosetto di un piccolo paesino sperduto del Salento, e la mia massima trasgressione era riuscire a “sballarmi” di cartoni animati nel pomeriggio… Ne vedavamo di ogni tipo, visto la presenza di tua zia e dei tuoi zii. Dopo si giocava fino a sera, anche con i ragazzini del vicinato, spesso imitando le gesta dei nostri eroi cartonati…

Alcune sigle, all’apparenza innocue, raccontavano di effetti psicotropi incredibilmente sottovalutati… Le avventure dei rispettivi protagonisti hanno destabilizzato non poco i nostri poveri e ancora fragili neuroni… Insomma, guardando ora il passato, mi rendo conto che molto di ciò che oggi è proibito, allora era del tutto legalizzato e largamente diffuso. Come “farmaci” dispensati ad orari prestabiliti, secondo rigide prescrizioni e con sigle simili a bugiardini…

A noi maschietti ci pensava un pescatore provetto dalle orecchie a sventola … “Amica tua/una canna fatta di magia”, evidente cenno alla modalità “goduriosa” di somministrazione. “e quell’amo una calamita/impossibile cambiare strada”, indicazione dell’effetto della dipendenza. “oh, Sampei/giramondo come i marinai/quanti mari vedrai”, elenco dei possibili effetti allucinogeni del viaggio. “Sampei, Sampei/e la barca va, la barca scivola/con te dietro ai sogni che fai”, evidenza di uno stadio definitivo in cui sono le allucinazioni a condurre.

Anche le femminucce erano ben servite, a dire il vero avevano più scelta. Posso ancora ricordare ben tre famose “eroine” che le hanno condotte ai confini della realtà. Per la verità un po’ tutti canticchiamo ancora le loro canzoni…

“Heidi, Heidi, ti sorridono i monti […] le caprette ti fanno ciao”, qui si leggono gli effetti (forse) indesiderati. “Neve, bianca sembra latte di Nuvola”, qui il principio attivo. “Heidi, Heidi, tutto appartiene a te”, la raccomandazione ad un consumo personale.

“Anna dai capelli rossi ha/due grammi di felicità”, la dose raccomandata. “chiusi dentro all’anima”, conservata nel posto giusto. “e al mondo vuol sorridere”, indicazione dell’effetto desiderato.

Ma una più di tutte, il cui bugiardino mente spudoratamente, è la vera “eroina” per eccellenza. Tanto pura quanto pericolosa per i guai che causa. Ti fa salire fin sulle vette dell’Olimpo e fa crescere il desiderio di sentirsi un dio tra gli dei. È lei: Pollon!

La sigla (qui) non accenna minimamente alla sostanza psicotropa, ma chi ha seguito le gesta di questa minuta combinaguai non può non ricordare una tale ammissione: “Sembra talco ma non è, serve a darti l’allegria! Se lo mangi o lo respiri ti dà subito l’allegria!”, canzoncina interpretata da Pollon in un ridicolo siparietto introduttivo, circondata da due curiosi orsi, prima di spacciarla con generosità (qui). La piccola figlia di Apollo, usa questa magica polverina per aiutare altri personaggi in difficoltà, per ridonare l’allegria persa. È una sorta di polvere del buon umore!

Lei va alla ricerca di chi ha bisogno di aiuto, imbattendosi nei protagonisti dei miti greci, ritoccati appositamente dagli autori in modo fantasioso e quasi sempre irriverente. Tutto sommato, la serie rappresentava per noi ragazzini degli anni 80 un modo divertente ed inusuale per approcciarsi con curiosità alla mitologia greca, non tanto digerita tra i banchi di scuola…

La nostra eroina è aiutata dall’inseparabile Eros, un brutto e alato cupido, con evidente ernia ombelicale.

Ciò che la spinge nel suo cammino di crescita è il desiderio di poter diventare a tutti gli effetti una grande dea. Il nonno Zeus ad ogni sua buona azione la ricompensa con una moneta che va a riempiere un piccolo salvadanaio a forma di trono. Questo crescerà proporzionalmente alla maturità della nipotina, fino a raggiungere una grandezza naturale.

All’inizio della storia, la beniamina di tutti gli dei è impacciata, oltremodo curiosa, ostinata a cantare pur essendo stonata. Questa sua esuberanza è causa di innumerevoli guai, invece di aiutare peggiora le situazioni in cui si va a cacciare, ma col tempo impara a comportarsi meglio. Ad aiutarla in questo c’è soprattutto la Dea delle dee, che la incoraggia, la consiglia, soccorrendola nei momenti difficili, una sorte di angelo custode o fata turchina. Le fa dono di un miracoloso fermacapelli col quale contattarla e compiere miracoli: il Miracolo Bon Bon. Un amuleto dai poteri magici che giunge proprio nel momento in cui la figlia di Apollo comincia a crescere interiormente.

Questa Dea, avvolta da un alone di grande solennità e mistero, è la chiave di lettura di tutta la serie, perché in verità è la Dea della Speranza! Solo la più piccina degli abitanti dell’Olimpo ed i piccoli telespettatori sanno della sua esistenza. Gli altri personaggi sembrano ignorarla. La speranza evidentemente è la virtù dei piccoli! I grandi, gli orgogliosi non la conoscono, non sanno cosa sia.

Nell’ultimo episodio Pollon libera tutti i mali contenuti nel vaso di Pandora rischiando di contagiare il mondo intero, ma trova la soluzione al problema nello stesso vaso, estraendo proprio la speranza!

A questo punto la Dea delle dee cederà il proprio posto a Pollon che finalmente diverrà la nuova Dea della Speranza e siederà sul trono.

Ecco il nocciolo di tutta la storia: la Speranza! La Speranza che dona il buon umore! La vera allegria! Una gioia che non viene mai meno, che può forse essere sotterrata dalle difficoltà che ogni tanto ci sovrastano, ma è sempre alla nostra portata, basta sbirciare sul fondo e se necessario scavare.

Ma Pollon dove la trova la speranza in polvere? Dobbiamo andare alla ricerca del suo pusher! Quello vero, quello che non fa male. Chi è e dove possiamo incrociarlo?

La droga, senza distinzioni, è un male. Un artificio inutile, utilizzato, molto spesso da giovani, nel tentativo di alleviare la sofferenza che attanaglia i cuori. Ragazzi lontani dalla ricerca di grandi obiettivi da realizzare nella vita, centrati su sé stessi, sui piccoli problemi dell’oggi: iPhone o Galaxy, questo è il problema! Hanno tutto e non desiderano più niente, vivono nell’ansia di perdere ciò che possiedono. Presto il paventato sequestro del cellulare che un genitore minaccia al proprio figlio potrebbe considerarsi istigazione al suicidio…

Tanti sono i giovani lasciati soli, strattonati da genitori in rotta di collisione, e che per questo sperimentano e interiorizzano la mancanza di fiducia nell’altro… Ragazzini i cui bisogni non sono mai maturati in desideri, che si spendono per il nulla e le cui gonadi caratteriali rimangono ipotrofiche. Chi non coltiva desideri non raccoglie speranza. Rimane fragile.

La droga peggiora solo la situazione. Rafforza la dipendenza al male, non libera. Amplifica bisogni irrefrenabili, rende ancor più schiavi e violenti. Il cervello è ridotto ad un colabrodo, il cuore rimane ingabbiato… Ti mette una palla al piede impedendoti di evadere veramente. È la risposta sbagliata ad una endemica carenza di speranza, dovuta ad una tendenziale abitudine alla disperazione che caratterizza in particolare l’uomo moderno e che potremmo definire “disperatitudine” (cit. Melvin Peabody, direttore di un noto penitenziario del Nevada al confine col Messico).

Un mal di vivere, un po’ come la nostalgia di Heidi e l’inadeguatezza di Anna dai capelli rossi.

Tutti i giorni corriamo il rischio abituarci alla tristezza, finanche alla disperazione! La cronaca nera ci terrorizza sempre più, le morti violente sembrano poterci raggiungere in ogni piazza, ad una crisi finanziaria pare seguirne sempre una peggiore, si lanciano missili come petardi… La speranza appare così più fragile, spenta, esaurita e, al contempo, sempre più necessaria, perché comprendiamo che riguarda il nostro futuro.

Molto spesso questa fragilità è fortemente legata al vissuto emotivo-affettivo, varia a seconda delle emozioni che ci attraversano repentinamente, senza autocontrollo, scevre da ogni discernimento.

Avvertiamo così l’impellente esigenza di un’àncora, di una speranza non vaga che ci trattenga, ci faccia riposare in luoghi sicuri nel bel mezzo della burrasca della nostra vita. Una speranza non velleitaria, che non faccia leva solo sulla nostra forza di volontà. Abbiamo bisogno di altro.

La parola “speranza” ha diversi significati, come degli strati di una stessa città il cui valore risiede proprio nella ricchezza storica preservata, nella memoria accumulata, nella sicurezza della persistenza di un senso nonostante le macerie.

Ad un primo livello, il più superficiale, troviamo proprio la speranza del vaso di pandora, che non è una virtù, ma un male. Il Vaso di Pandora è il Vaso dei Mali, e quindi è in parte un male essa stessa. Zeus creò la donna che Ermes chiamò Pandora, talentuosa quanto curiosa; le consegnarono un vaso chiuso, dove Zeus aveva rinchiuso tutti i mali del mondo, e la mandarono come dono a Epimeteo fratello di Prometeo (quello che rubò il fuoco agli dei per regalarlo agli uomini). Pandora aveva avuto l’ordine di non aprire mai il vaso, ma la curiosità è donna e così sollevò il grande coperchio lasciando fuggire il terribile contenuto; per il mondo si diffusero i malanni, la fatica, l’invidia ed ogni sorta di altro male. Quando si accorse di ciò che era successo, Pandora cercò di rimediare chiudendo il vaso: ma, alla fine, dentro vi rimase soltanto Elpis, la Speranza.

Per gli antichi greci la speranza è intesa come “Timor del futuro” ed è ambivalente: distoglie lo sguardo dell’uomo dal suo destino di sofferenza e morte e impedisce di vedere con chiarezza il futuro, la realtà e verità delle cose… Per San Paolo tale speranza è “vana”, una sorta di cortina di fumo, un oppiaceo ad uso e consumo di chi spera al massimo di vincere al superenalotto, di chi confida nella salvezza offerta dalla sorte, dalla cartomante o peggio ancora dallo stato.

Pollon va oltre questo tipo di speranza illusoria e deludente. È già ad un secondo strato della speranza, più profondo, quello in cui si palesa come virtù. Ha infatti l’atteggiamento spirituale e morale di chi nutre ragioni per sperare in un futuro prossimo migliore del presente, ed è in una chiassosa tensione perché quel “non ancora” diventi “già”. Coltiva desideri grandi la piccina e comprende che è chiamata in causa. Ha una vocazione che vale la pena realizzare.

C’è poi un terzo livello, quello in cui si fatica per migliorare il presente in cui vive. La virtù si rafforza perché viene esercita con impegno e disciplina. Pollon dona la propria allegra vivacità agli altri, è interessata, sempre più, al bene della propria comunità di dei e semidei. Ha compassione per gli abitanti della sua città, per lei sono un dono, occasione di crescita. Comprende che può realizzare il suo desiderio solo aiutando gli altri a realizzare i propri. Si diventa grandi insieme. La speranza ha un respiro comunitario. Nessuno impara a sperare da solo. Non è possibile. La speranza, per alimentarsi, ha bisogno necessariamente di un “corpo”, nel quale le varie membra si sostengono e si ravvivano a vicenda. Semina buon umore ovunque ed è causa di miglioramenti “sociali”, a piccoli passi e con fatica come sa fare lei. A sperare sono proprio coloro che sperimentano ogni giorno la prova, la precarietà e il proprio limite. Lei rimane ferma nell’affidamento alla Dea della Speranza, sapendo che, al di là della tristezza, dell’impotenza dinanzi a problemi irrisolvibili, l’ultima parola sarà la sua, e sarà una parola di pace, rassicurazione e misericordia. Pollon a volte sbaglia, ma si può rimproverare l’errore non voluto a chi è in uscita verso il prossimo? Questo tipo di speranza è contagiosa e come la sua polvere magica andrebbe fatta respirare e mangiata quotidianamente in famiglia, a lavoro, in parlamento, nei mercati. Un ottimo antidoto alla “disperatitudine” civile e sociale. Se vi risulta più comodo potete tralasciare il balletto introduttivo…

Vi è però un ulteriore e ancor più nobile livello di speranza, ad una profondità che si dilata magicamente verso inaspettate estensioni. È il punto in cui l’ascesi si ferma in attesa di un rapimento mistico. La lingua spagnola, come quella portoghese, usa una sola parola per dire “sperare” e “attendere”: esperar. C’è forse qualcosa di “esperar” nei misteriosi colloqui tra Pollon e la Dea delle dee. La piccola rimane in attesa di un cenno, di un intervento divino perché altro non può fare. È certa che non mancherà. Ed ecco che la Dea della Speranza sopraggiunge, in abbondanza, ridonandole nuove ragioni per sperare ancora e sempre più. La speranza come “virtù teologale” viene dall’Alto ed eccede rispetto a ogni merito.

Papa Francesco ci insegna che La speranza cristiana è l’attesa di qualcosa che già è stato compiuto [… ] Anche la nostra risurrezione e quella dei cari defunti, quindi, non è una cosa che potrà avvenire oppure no, ma è una realtà certa, in quanto radicata nell’evento della risurrezione di Cristo. Sperare quindi significa imparare a vivere nell’attesa. Imparare a vivere nell’attesa e trovare la vita. Quando una donna si accorge di essere incinta, ogni giorno impara a vivere nell’attesa di vedere lo sguardo di quel bambino che verrà. Così anche noi dobbiamo vivere e imparare da queste attese umane e vivere nell’attesa di guardare il Signore, di incontrare il Signore. Questo non è facile, ma si impara: vivere nell’attesa. Sperare significa e implica un cuore umile, un cuore povero. Solo un povero sa attendere. Chi è già pieno di sé e dei suoi averi, non sa riporre la propria fiducia in nessun altro se non in sé stesso.

Pollon riconosce che ciò che le viene trasmesso dalla Dea della Speranza è un dono “rivitalizzante”, il vero motore della sua allegria. Potremmo accostare in qualche modo questa Dea alla Vergine Maria. Lei che in mezzo alle tenebre della passione e della morte del suo Figlio continuò a credere e a sperare nella sua risurrezione, nella vittoria dell’amore di Dio, è per noi segno luminoso di consolazione e di sicura speranza. In Lei la speranza dei millenni è diventata realtà. Il futuro eterno di Dio le è germinato in grembo ed è divenuta madre della santa speranza. Dove c’è Lei c’è di sicuro lo Spirito Santo. È calamita umana delle grazie divine. La sua assunzione è immagine e inizio della Chiesa che dovrà avere il suo compimento nell’età futura. Lei è vita, dolcezza e speranza nostra.

Maria ci dona suo Figlio e ci ricorda che è risorto, è vivo fra noi e abita in ciascuno di noi. Insiste affinché lo seguiamo verso il Padre celeste, oltre la morte, fino alla Resurrezione! Gesù è nei nostri cuori ed è lì che occorre adorarlo. Scavando si arriva al centro dell’uomo, al suo cuore. Lì ha preso dimora il nostro Salvatore nel giorno del nostro Battesimo, e da lì continua a rinnovare noi e la nostra vita, ricolmandoci del suo amore e della pienezza dello Spirito. Possiamo rendere ragione della speranza che è in noi ricordando che la nostra speranza non è un concetto astratto, un sentimento ma una Persona che addirittura riposa nei nostri cuori: Gesù, vivo e presente, perché risorto!

Solo un Dio della speranza poteva crearci in questo modo, capaci di contenere ogni gioia e pace, capaci di riceverlo.

Pollon nel cammino di crescita attraversa i suoi deserti. La fatica di superare prove, tentazioni, illusioni e miraggi forgiano in lei una speranza forte, salda, sul modello della Dea della Speranza. Arriverà addirittura a prendere il suo posto, diventato dea della Speranza pure lei. “Ecco la stupenda realtà della speranza: anche noi confidando nel Signore possiamo diventare come Lui, la sua benedizione ci trasforma in suoi figli, che condividono la sua vita. La speranza in Dio ci fa entrare, per così dire, nel raggio d’azione del suo ricordo, della sua memoria che ci benedice e ci salva. E allora può sgorgare l’alleluia, la lode al Dio vivo e vero, che per noi è nato da Maria, è morto sulla croce ed è risorto nella gloria. E in questo Dio noi abbiamo speranza, e questo Dio – che non è un idolo – non delude mai” (Papa Francesco).

Gesù con la sua morte in Croce ha trasformato il nostro peccato in perdono, la nostra morte in risurrezione, la nostra paura in fiducia. Una tale speranza, così luminosa e ardente, non può non esprimersi anche all’esterno. Il cristiano, figlio mio, non vive fuori dal mondo, riconosce i segni del male, dell’egoismo e del peccato. “È solidale con chi soffre, con chi piange, con chi è emarginato, con chi si sente disperato[…]Però, nello stesso tempo, il cristiano ha imparato a leggere tutto questo con gli occhi della Pasqua, con gli occhi del Cristo Risorto. E allora sa che stiamo vivendo il tempo dell’attesa, il tempo di un anelito che va oltre il presente, il tempo del compimento. Nella speranza sappiamo che il Signore vuole risanare definitivamente con la sua misericordia i cuori feriti e umiliati e tutto ciò che l’uomo ha deturpato nella sua empietà, e che in questo modo Egli rigenera un mondo nuovo e una umanità nuova, finalmente riconciliati nel suo amore.” (Papa Francesco)

Che bello! L’esuberante bellezza dell’Amore che fa risorgere tende ad irradiarsi dal nostro cuore verso il prossimo col sorriso, l’ascolto, la tenerezza. Dovrebbe trasparire dolcemente verso gli altri, contagiare, attrarre. Frapporre ostacoli avvizzisce, demoralizza e ci ammala. Ricorda un santo triste, che non sorride, è un triste santo!

Giusto per non lagnarti, vado alle conclusioni. Abbiamo detto che il bisogno di speranza è un bisogno che, nel cuore dell’uomo, spesso rimane quasi intrappolato, frustrato, sepolto dalle macerie. Con Pollon oggi abbiamo scavato per scoprire quale speranza è quella più resistente e abbiamo trovato Gesù Risorto nel nostro cuore.

Ma se Gesù Risorto è la nostra speranza chi è che lo spaccia? Chi è il pusher di Pollon?

Come saprai il pusher si aggira con molta discrezione, frequenta le zone più buie, evitano di apparire, si muove senza dare nell’occhio ed intanto, “spinge”, per definizione (push = spingere), il mercato della droga, promuovendo e spacciando stupefacenti.

In tutta questa nostra storia, chi silenziosamente si nasconde nella parte più inaccessibile del nostro cuore, in quella zona dell’anima che è il nostro spirito, è proprio lo Spirito Santo. È Lui che mantiene vivi il gemito e l’attesa del nostro cuore. Vede per noi oltre le apparenze negative del presente e ci rivela già ora i cieli nuovi e la terra nuova che il Signore ha preparato per l’umanità. Lo Spirito è il vento che ci “spinge” in avanti, che ci mantiene in cammino, ci fa sentire pellegrini e forestieri.

È il vento raccolto dalla vela della speranza. La speranza lo raccoglie e lo trasforma in forza motrice che “spinge” la barca della nostra vita. È capace di farci addirittura “abbondare nella speranza”, cioè farci sperare “contro ogni speranza”, sperare quando viene meno ogni motivo umano di sperare.

È grazie a Lui che il Verbo si è fatto carne ed il mare contiene il cielo. È Lui che forma e trasforma!

Sempre Papa Francesco ci ricorda che Lo Spirito Santo non ci rende solo capaci di sperare, ma anche di essere seminatori di speranza, di essere anche noi – come Lui e grazie a Lui – dei “paracliti”, cioè consolatori e difensori dei fratelli, seminatori di speranza. Un cristiano può seminare amarezze, può seminare perplessità, e questo non è cristiano, e chi fa questo non è un buon cristiano. Semina speranza: semina olio di speranza, semina profumo di speranza e non aceto di amarezza e di dis-speranza. Il Beato cardinale Newman, in un suo discorso, diceva ai fedeli: «Istruiti dalla nostra stessa sofferenza, dal nostro stesso dolore, anzi, dai nostri stessi peccati, avremo la mente e il cuore esercitati ad ogni opera d’amore verso coloro che ne hanno bisogno. Saremo, a misura della nostra capacità, consolatori ad immagine del Paraclito – cioè dello Spirito Santo –, e in tutti i sensi che questa parola comporta: avvocati, assistenti, apportatori di conforto. Le nostre parole e i nostri consigli, il nostro modo di fare, la nostra voce, il nostro sguardo, saranno gentili e tranquillizzanti» (Parochial and plain Sermons, vol. V, Londra 1870, pp. 300s.). E sono soprattutto i poveri, gli esclusi, i non amati ad avere bisogno di qualcuno che si faccia per loro “paraclito”, cioè consolatore e difensore.

Il pusher di Pollon è lo Spirito Santo!

Come Pollon dovremmo tornare quindi a pregare, ad avere grandi desideri, a vedere l’altro come dono, a consolare e difendere il prossimo, a rimanere in attesa, a non confidare troppo nelle nostre capacità, a riconoscere i nostri limiti, ad affidarci a Maria, a seguire Cristo, a farci condurre dalla Spirito Santo e non smettere mai di “seminare”, “sprecare”, “spacciare” questa Speranza…

Una sana abitudine contro una malsana.

Pollonitudine contro disperatitudine!!!

“La metafisica e i cartoon spiegati a mio figlio” di Angelo Mazzotta

Non so voi, ma in casa mia oltre a calzini, mutande e magliette (del sottoscritto) dai rispettivi cassetti spariscono anche barattoli interi di nutella, barrette kinder e gocciole a gogò. Per i primi c’è chi sostiene (Lei) che sono io a non ricordarne la corretta ubicazione, per i secondi, i più piccoli ipotizzano l’azione di inquietanti presenze: ladri, fantasmi, alieni!!! Dai loro volti però non colgo l’espressione di chi ha paura, ma quella di chi si compiace d’averla fatta franca… Ne sono convinto perché negli anni ho sviluppato un sesto senso: quello investigativo. Ho avuto sempre il pallino per i film polizieschi, le crime story ed un po’ mi atteggio a Sherlock Holmes … Ovviamente, sempre Lei, non perde occasione per farmi notare che manco del fascino di Robert Downey Jr. e di almeno quattro dei primi cinque sensi: vista, udito, gusto e tatto. Che dire, mi vuole bene! Pare accontentarsi del mio fiuto “comico”, tipo Commissario Juve di Fantoman o Zazà di Lupin. Sulle mie doti intellettivo/investigative maturate alla scuola delle avventure di Lupin III, lascio giudicare mio figlio, il discente prediletto della metafisica dei cartoni, sempre presente e tra l’altro grande fan del Detective Conan. Gli anime di Lupin III si ispirano al manga ideato da Moneky Punch nel 1967, a sua volta liberamente ispirato alle vicende di Arsène Lupin raccontate nei romanzi di Maurice Leblanc. Lupin III, come il nonno ed il padre è un ladro incredibilmente abile, ricercato in tutto il mondo dalla polizia, in particolare da Zenigata dell’Interpol. Pur rappresentando più di altri la furbizia fatta persona è spesso impacciato in presenza di belle ragazze, soprattutto di Fujiko, di cui è innamorato e per la quale rischia spesso la vita, anche quando questa cerca di truffarlo. Fujiko è giovane, furba, bella, sensuale, un tantino egoista; si serve della sua bellezza per ottenere da Lupin un aiuto per i propri interessi, scaricandolo quando non serve. Lui pur rimproverandola ripetutamente se ne scorda e torna a darle retta, facendo per questo infuriare gli altri due suoi compagni: Jigen e Goemon. Jigen dalla sigaretta illimitata come i proiettili della sua pistola, un revolver Smith & Weston 629 Combat Magnum (calibro 44), spara meglio di Lucky Luke, ricarica alla velocità della luce e ha una infallibile mira grazie ad un vistoso cappello che sembra cucitogli addosso; Goemon, taciturno esperto di arti marziali, è un samurai munito di una Zantetsu-ken, una katana senza guardia la cui lama è realizzata con una speciale lega, più tagliente degli artigli di Wolverine. Viaggiano con diverse auto: una mercedes benz ssk del 1928, un’alfa romeo 6c 1750 e soprattutto la mitica Fiat 500 gialla. Lupin possiede grandi abilità, ha conoscenze matematiche, informatiche, chimiche, pratica le arti marziali (un po’ meno bene di Goemon), impugna una Walther P38 che maneggia con precisione (non quanto Jigen); è spaccone, coraggioso, carismatico, sempre in cerca di avventura, intelligentissimo, capace di incredibili quanto assurdi travestimenti, è geniale e mette a segno furti impossibili. É conosciuto come il ladro gentiluomo, ha rinunciato a dei tesori per salvare chi è in pericolo, ha messo a repentaglio la propria vita pur di salvare il mondo. Rimane un eccellente scassinatore, capace di usare con estrema facilità ogni sorta di grimaldello. Non c’è cassaforte che tenga… Ma sarà veramente il migliore? Ci sono state altre persone, più o meno immaginarie, che nella storia (a parte i suoi famosi antenati) sono riusciti a portare a segno furti ancor più leggendari? Facendo pressione su alcuni fidati informatori ho scoperto che un certo Disma (questo il nome che qualche storico orientale gli associa), forse un egiziano, è riuscito a compiere una simile prodezza all’incirca 2000 anni fa. Un uomo di malaffare, ladro se non addirittura assassino, al quale poco prima di morire è riuscito il colpo di una vita!!

È il famoso buon ladrone appeso assieme ad un altro ladro (cattivo), ai lati della croce di Gesù sul Golgota. Parrebbe che Disma, redarguendo il compagno che insulta Gesù, la cui intitolazione recita essere il Re dei Giudei, ottiene così, di primo acchito, il più grande tesoro mai esistito! Riesce ad entrare nel luogo più ambito della storia umana: il giardino del Re. Immenso, splendente, rigoglioso, ricco di ogni ben di Dio. Un luogo che avrebbe fatto gola sicuramente anche a Lupin.

Se immaginiamo il Paradiso come più o meno quel giardino dell’Eden dal quale Adamo con Eva furono cacciati per insubordinazione e furto, possiamo dedurre che fosse rimasto anche serrato, la porta chiusa a doppia mandata e ben custodita, proprio per evitare il ripetersi di tali delitti e tenere in salvo almeno l’albero della vita. Non sia mai che qualche altro malintenzionato tenti di intrufolarsi! Si dice che effettivamente la porta del Paradiso, prima della presa in servizio di Pietro, sia stata piantonata da un angelo cherubino, una creatura celestiale e alata, luminosa quanto potente, armata di una spada infuocata. Pronto, come Daltanius, a tagliare in quattro, arrostendolo a puntino, l’umano che avesse tentato un accesso furtivo. Una zantetzu fiammeggiante da far schiattare di invidia lo stesso Goemon. Uno sbarramento sovraumano sulla soglia di una reggia, tale da scoraggiare persino Pegasus che pure, al massimo del cosmo e munito della più performante armatura d’oro, di porte (e case) ne ha attraversate tante. Eppure, Disma riesce ad entrare, è il primo uomo a farcela. Pare aver aperto la porta con nonchalance, attraversato l’uscio a petto nudo, senza scudi e senza manco un taglietto. Ma come ha fatto? Non vi nascondo che la prima volta che mi è stato fatto notare questo “colpo da maestro”, sono rimasto per dei minuti a bocca aperta, frastornato, stupefatto come l’agente Kujan quando scopre, oramai in ritardo, che il suo interlocutore non era il furfantello, invalido e pentito “Verbal” Kint, ma proprio l’inarrestabile e crudele Keyser Söze. Che beffa! E che bastardo…

Un po’ come Zenigata che reputa Lupin capace di tutto, anch’io lo immagino capace dello stesso colpo di Disma. Lupin è ineguagliabile, nulla gli è impossibile, potrebbe giungere sul Golgota grazie a qualche artificio a danno del sinedrio, si potrebbe travestire addirittura da ladrone e far la parte del cattivo, pur di riuscire a origliare e attingere informazioni utili ad individuare il Regno, direttamente dal padrone di casa prima di morire. Anche perché mica Lupin muore davvero, lui è inafferrabile. Carpito il segreto, ci penserà Jigen, posizionato sul Tabor, ad atterrare le guardie, mentre Goemon, svestitosi da cireneo, taglierà di netto il tronco della croce, le corde e anche i chiodi, lasciando libero l’amico, ovviamente con un ritardo di appena due secondi. Nel frattempo la solita Fujiko riscuoterà altri 30 denari in cambio di una copia della mappa per il regno, come sempre da sottrarre al sedotto e ignaro Lupin. Questi infine potrebbe raggiungere l’Eden, a bordo di una tuonante navicella costruita con i pezzi delle barche rubate ai fratelli Boanèrghes. Per muoversi agilmente in prossimità del cherubino, potrebbe sfruttare dei coni d’ombra e aprire la porta con un apposito grimaldello. Già, ma che tipo di grimaldello? Fosse pure capace di giungere veramente alle porte del Paradiso senza essere visto, potrà mai aprire una serratura sconosciuta sulla Terra?

A dire il vero, non sono nemmeno tanto convinto dell’infallibilità di questo piano. Per quanto Lupin sia furbo, nella propria vita, prima o poi si giunge davvero su un Golgota, e lì non c’è travestimento che tenga. Non ci sono maschere. Il dolore che si sperimenta svela la natura limitata e ferita di ogni uomo. Non rimane che contemplare da vicino le ferite del Crocifisso, guardare inevitabilmente il Suo corpo martoriato. Potrebbe sorprenderci il fatto che le nostre ferite sono pure le sue. Meglio, sono nelle sue. Un’esperienza che libera dalla disperazione della solitudine, catapultando chiunque alla radice di ogni cosa, di ogni verità, di ogni gioia e sofferenza. E lì che si è costretti a decidere, a scegliere. La via della croce di Gesù è il vero crocevia per chi vuole decidersi di andare lassù. Occorre imboccare la strada giusta, quella che lo stesso Gesù suggerisce. In che senso?

Se torno al nome del ladrone, scopro che la sua radice greca, “dysmé”, evoca il tramonto del sole, il declino di una vita. Mentre ladro, dal latino “latro”, rimanda a colui che resta in agguato sulle strade; un tempo era tale il soldato che ponendosi al lato del proprio re, lo difendeva, mettendo in fuga il nemico: una vera e propria guardia del corpo. Successivamente “abusando” della propria posizione divenne sinonimo di colui che assedia le strade: approfittatore, furfante, masnadiero. Disma sul finire della propria vita, trascorsa miseramente ai bordi della strada, senza un padrone, incontra sulla croce Qualcuno che gli restituisce la bontà originaria, lo riporta all’inziale splendore! Vive, anche se per poco, la ri-evocazione della vocazione disattesa. Nel riconoscere Cristo Re, riscopre sé stesso. Al tramonto dei suoi giorni, egli finalmente incontra il sole, la vera luce dell’esistenza: Gesù! Penzolante e sofferente, scorge in Lui il Re, si ritrova al Suo lato e torna a essere una guardia del corpo, la Sua. Tanto che non esita a difenderlo zittendo il burbero compagno. La croce è per Disma occasione di risurrezione immediata, scopre la strada giusta da perseguire nei suoi ultimi passi. Afferma la regalità di Cristo nel momento dell’abominio, della sconfitta, della derisione dei notabili che stanno sotto la croce. Confessa le proprie colpe. Proclama innocente Gesù. Chiede di essere ricordato, perché oramai si affida totalmente al Signore della Vita. Riconosce nella morte l’ingresso per l’Eternità! Non è più assediato sulla strada, ancorato al possesso, ma finalmente libero di seguire il proprio Re diritto nel suo Regno. Non attende più, perché in quell’oggi Gesù lo porta in Paradiso! Ai suoi lati quindi Gesù “ritrova” dei soldati, uno accetta di tornare a servirlo, l’altro continua a crogiolarsi nella propria miseria, rifiutandolo. Lupin per quanto possa sembrare incorreggibile, non rimarrebbe indifferente accanto a Gesù.

Ma la domanda, che anche Lupin potrebbe continuare a porsi, rimane: Disma come ha fatto ad entrare? Il cherubino non è intervenuto? Il grimaldello qual è?

Le Chiese di tradizione siro-orientale, mettono in scena la domenica di Pasqua o la mattina del lunedì, un Dialogo tra il Cherubino e il Buon Ladrone, ove si racconta come Disma abbia ottenuto il nulla osta dall’angelo cherubino: si è presentato alle porte del Paradiso con in mano la croce di Cristo! È una vera celebrazione liturgica, molto popolare, rappresentata in chiesa da due diaconi, secondo un testo che risale probabilmente al V secolo ed è preceduto dal canto di alcuni salmi da parte del coro. Due diaconi vestiti di bianco si collocano l’uno alla porta del santuario – la porta del cielo – con una spada fiammeggiante nella mano, l’altro nella navata con una piccola croce di legno “nascosta” nelle maniche (proprio come farebbe Lupin). Mentre il coro intona le sette prime strofe del dialogo, i due diaconi vanno ai loro posti e intonano poi in forma dialogata le altre strofe del testo. Alla fine, il ladro mostra al cherubino la croce dicendo: “Ti ho portato la croce come segno. Guarda se è genuino. Non contestare”. Entrambi, allora, entrano nel santuario fino all’altare. Nel dialogo vi è uno stretto legame tra Regno e Eden: il luogo da dove Adamo è stato espulso e il regno promesso da Cristo al ladro sulla croce vengono collegati, e le parole di Cristo non sono “sarai oggi nel paradiso”, come nel testo di Luca, ma “sarai oggi nell’Eden”.

Da tutto ciò spicca la centralità della croce come “chiave” di apertura dell’Eden/Paradiso. L’Eden per il cherubino è un luogo chiuso, per il ladrone è stato aperto da Cristo, grazie alla Sua croce. La croce vince la spada. Il suo legno resiste al fuoco perché intriso del sangue del Figlio dell’Altissimo. È un pezzo genuino, originale, garanzia di incrollabile speranza, capace di spalancare ogni porta. La croce è il vero grimaldello della vita eterna!

A questo punto si impone un’altra domanda. Come ha fatto Gesù a convincere Disma? L’Innocente morto e risorto è anche il Re dei cuori. È figura carnale della misericordia Divina. Il Figlio di Dio ha assunto la nostra natura, si è fatto nostro fratello, capace di soffrire. L’essenza misericordiosa della Sua regalità si esprime ancor più nella misera figura della sua crocifissione. Incarnando l’estrema miseria umana è riuscito a sintonizzarsi su ogni altra miseria. Di ogni altro essere umano ha provato tutte le affezioni, piaceri e dispiaceri. Partecipando ai sentimenti altrui si è reso simpatico! Sulla croce ha condiviso la gioiosa promessa del Paradiso con l’ultimo moribondo che a Lui si è confidato. Lo sguardo disperato del ladrone ha incrociato quello sanguinante del Re morente, i cui occhi tumefatti, ma carichi di speranza, lo hanno provocato tanto da fargli tremare il cuore. Gliel’ha toccato, accarezzato, guarito. Non è stato più lo stesso, non si è potuto trattenere, non è stato più suo. La miseria è attratta dal Misero, come il soldato dal proprio Re. L’amore malato guarisce col sangue della Verità incarnata perché l’Amore trasforma l’amato! Il Suo tocco è la tenerezza. Una carezza capace, anche nella sofferenza più tremenda, di aprire tutti i cuori e farli suoi. Un cuore al “sicuro” non è più se gli gira attorno Gesù!

È Lui il vero ladro, colui che sta alla destra del Padre e di soppiatto potrebbe incrociare il mio come il tuo sguardo, figlio mio! Viene di notte come un gatto dai tetti, scivola sotto i ponti e chi vorrebbe metterlo in prigione (o in un sepolcro) non ci riesce. Stanotte potrebbe toccare a noi! Non preoccuparti se gioielli e denaro e tesori non hai, Lui vuole solo il tuo cuore. Dagli il tuo cuore! Dagli tutto! Vedrai, ti priverà del di più per darlo a chi non ne ha. Ti alleggerirà, è vero, ma solo per farti camminare più speditamente verso l’alto. Il suo “rubare” è più uno spogliare l’amato dell’eccesso, uno sciogliere il male che incrosta la tua anima, immobilizza i tuoi talenti. Man mano che frequenterai un Dio così simpatico, per alcuni assai poco “raccomandabile”, ti renderai conto che già su questa terra regala il centuplo. Un comodo anticipo dell’eredità celeste. Lui è sempre presente, nessuno pare vederlo, ma stai sicuro che è in giro camuffato da straniero ai crocicchi delle strade, da compagna di tutta una vita, da chi scorgi mentre ti specchi. È vivo perché risorto. E visita i cuori. La croce gli ha permesso tutto questo. È il suo grimaldello.

Disma con la croce apre il paradiso, ma a ben vedere chi per primo ha usato la croce come grimaldello è stato proprio Cristo! È Cristo il ladro inarrivabile, capace di scardinare le porte più chiuse, più sicure. E lo ha fatto, benché capace, senza vistosi miracoli. Non resuscitando i morti o rimproverando il mare e i venti, non mettendo in fuga i demoni, ma proprio stando lì crocifisso, inchiodato, oltraggiato, sputacchiato, fatto oggetto di scherno e di riso, perché potessimo vedere tutti gli aspetti della sua potenza. Nel massimo della sua debolezza causa l’apertura del paradiso e vi introduce un ladro. Che colpo!

Non il colpo di una vita ma il colpo per ogni singola vita!

Non il colpo da maestro ma il colpo del Maestro!

Un colpo da Dio insomma, troppo anche per Lupin.

Negli anni si sono succedute diverse sigle, ma su tutte preferisco quella della seconda serie, nota come Lupin (fisarmonica) (RCA, 1982), per l’uso strumentale di una fisarmonica nell’introduzione e nell’accompagnamento. Con un testo di Franco Migliacci e musica di Franco Micalizzi, accompagnata dall’Orchestra Castellina-Pasi, signori e signore, (in)canta Irene Vioni: qui.

PS: ascoltando le parole mi sovviene un dubbio: non è che Lupin sotto sotto …

“La metafisica e i cartoon spiegati a mio figlio” di Angelo Mazzotta

Io: “La zia ha inviato un sms: pretende che io scriva qualcosa su Candy Candy!”, mio figlio: “Ma è una lavatrice con doppio oblò?”, “No! È un cartone dei miei tempi, un successo planetario! Racconta la storia di Candy, una ragazzina dalla vita complicata, romantica… Da vedere con tanti fazzolettini perché è da femmine! Va oltre le mie capacità, non saprei proprio da dove iniziare” e lui: “Magari dall’inizio?”.

Raccolgo la sfida ma mi ritrovo con un buco nero in testa, pertanto decido di chiedere lumi in giro: consulto mia moglie, vado googlando la sera (la sigla è questa) e interrogo le amiche di sempre su cosa ricordano di Candy Candy. Appunto le risposte e compilo una classifica approssimativa (crescente per pathos e non cronologica) dei momenti clou, compresi ed elaborati alla maniera di chi tenta di decifrare Enigma ma non è né Gordon Welchman né Alan Turing, quindi accontentatevi care lettrici e sorella.

Al primo posto troviamo un’apparizione sulla collina: la piccola Candy piange tristemente la lontananza di Annie (la migliore amica dell’orfanotrofio), appena adottata ed impossibilitata a continuare a scriverle. Le appare, però, all’improvviso, quasi come in un sogno, un angelo biondo con due occhioni azzurri, in kilt e intento a suonare la cornamusa. Scherzano sorridenti e lui magistralmente, sul finire, le rifila uno dei mantra rosa più riusciti: “Sei più bella quando ridi, che quando piangi“. Lui diverrà il suo principe della collina e lei ne custodirà il pregiato ciondolo smarrito sull’erba.

Al secondo posto abbiamo un funerale (visto che c’entrano i fazzolettini?): muore l’amato Anthony cadendo da cavallo. Nelle elementari e medie italiane, all’indomani, viene osservato il primo minuto di silenzio dell’età repubblicana su iniziativa della scolaresca rosa. Molte bambine vestite a lutto inscenano la cerimonia funebre intorno ad un banco, pregano e seppelliscono in giardino il cartone della loro merendina. Nasce il primo nucleo italiano animalista anti-tagliole. E non era manco il principe della collina!

Al terzo posto troviamo la sperimentazione di una nuova terapia per l’elaborazione di un lutto a cui viene sottoposta, contro la sua volontà, la nostra “signorina tutte-lentiggini”. Il terapeuta è Terence e non è facile resistergli. Lui vuol farle scordare la morte di Anthony, mettendola di forza su un cavallo e accompagnandola stretta a sé lungo un’interminabile quanto dolorosa galoppata. Pare aver funzionato. Siamo agli albori dell’ippoterapia!

Al quarto posto c’è un altro funerale (riecco i fazzolettini!!): muore in guerra Stear, amico di Candy e moroso di Patty, amicissime. L’eroe caduto è cugino di quel che si credeva essere il principe della collina, vedi il necrologio sopra. Nuovo lutto cittadino, nascita del primo nucleo antimilitarista e crollo delle vendite di carillon!

Al quinto posto un incidente sul lavoro: Terence viene salvato da Susanna, sua spasimante e collega attrice. Lei perde una gamba per lui. Lui le dona la testa, ma non del tutto il cuore. Tenebroso, affascinante, irriverente, Terence è figlio del conte di Granchester e di una nota attrice. È anche l’autore del gesto teatrale più applaudito della storia degli anime (v. sotto).

Al sesto posto si colloca un tentato suicidio: Susanna la spasimante mutilata di cui sopra, scoprendo quanto Terence è legato a Candy, tenta il suicidio, ma la rivale in amore la dissuade facendole intendere di volersi mettere da parte.

Al settimo posto, nel giro di pochi minuti dal precedente, un addio in pieno stile harmony. Le braccia di Terence fasciano delicatamente l’esile girovita di Candy, raggiunta alle spalle, lungo delle dritte ed interminabili scale. La separazione è accompagnata da reciproche dichiarazioni di amore, bagnate da abbondanti lacrime. La scottex decide di passare al doppio strato e ritornano in voga le scale a chiocciola!

All’ottavo posto si piazza l’imprevisto, ma tanto sospirato, bacio. Un approccio passionale voluto con virilità e dalle conseguenze violente. Durante un ballo, appartato, Terence all’improvviso si ferma, Candy lo fissa. Lui la bacia sulle labbra spingendola con forza a sé (la scena è messa in risalto da un gioco di luci stroboscopiche stile anni 70). Lei all’apparenza sembra aver non gradito e riprende il passo a due con sonore sberle e reciproci rimproveri. Un must! Schizzano le iscrizioni ai corsi di ballo!

Al nono posto, un caso di violenza di genere. La perfida, quanto geniale, Iriza, finalmente, dopo i ripetuti tentativi, spesso riusciti, di mettere in cattiva luce la povera Candy, subisce dall’irriverente, quanto mai provvidenziale, Terence, la giusta punizione: uno sputo in faccia tanto plateale da inzupparla di vergogna total body e forever! Un saluto genuinamente anarchico degno del più grande attore. Lei sprofonda e il pubblico femmineo si scompone in un liberatorio visibilio. Tale gesto è valso al nostro provetto attore (ex terapeuta) quarant’anni di standing ovation!!!

Al decimo posto c’è tutta l’ultima puntata. Albert si svela essere lo zio adottivo di Candy, William Andrew, colui che non ha mai smesso di prendersi cura della protagonista, intervenendo celatamente in più occasioni. Sulla collina di Pony, suona la cornamusa con al petto una copia del ciondolo raccolto da Candy oltre un centinaio di puntate prima. Finalmente scopriamo chi è il principe della collina!

A questo punto l’anime prende una strada diversa dal manga originale. Ecco un celebrity gossip: Candy nell’intenzione della sua ideatrice doveva finire tra le braccia di Albert e non di Terence! Nell’economia del romanzo l’infatuazione per lo sconosciuto principe della collina rappresenta l’amore immaturo, favolistico, quello per Terence l’amore passionale, adolescenziale, quello per Albert l’amore maturo, sempre fedele. Pare che le fan più agguerrite di Terence siano riuscite ad influenzare in extremis l’adattamento cartoonistico: la scena finale in cui Candy riceve una copia del giornale e da cui apprende alcune notizie riguardanti Terence e Susanna, è stata doppiata in modo tale da lasciare intendere che i due si sono separati aprendo al possibile ritorno di Terence. Ma la vera notizia è che Terence rimane con Susanna. La ritrovata coppia Terence-Candy potrà essere effettivamente gustata dalle filoterenziane in un raffazzonato e successivo adattamento per il cinema.

Di tutta la lunga e appassionante storia di Candy, ancor più degli intrecci amorosi, mi colpisce la resistenza della giovane protagonista, la sua capacità di far fronte alle avversità. Molti dei momenti clou accennati sono drammatici, come anche le vicende di alcuni personaggi minori (la famiglia Hamliton, Kuky, McGregor, Garcìa e tanti altri). Candy è orfana, viene rapita, rischia di affogare, è maltrattata dai fratellastri come cenerentola, cambia scuola, è messa in punizione, vive il dramma della guerra, si sposta in diversi paesi e nonostante ciò sceglie di fare l’infermiera, di aiutare ancor di più il prossimo, alleviando la sofferenza di chi incontra.

Ama la natura e tutte le sue creature: Clean, l’inseparabile amico procione, ne è testimone; considera come “padre” un albero, alto e ben piantato, su sui si arrampica spesso e alle cui pendici è stata trovata in fasce, proprio di fronte alla casa di Pony. Appena può corre sull’adiacente collina della casa, sulla cui vetta può gridare liberamente tutto il suo amore e riconciliarsi con il cuore.

Ecco, siamo tornati alla casa di Pony! Ha ragione mio figlio: è impossibile non considerare le origini di una storia. L’orfanotrofio, dove tutto ha avuto inizio, è il luogo in cui Candy è stata accolta sin da piccola. Per dieci anni ha vissuto con tanti bambini, abbandonati come lei ed in cerca di una vera famiglia. È stata accudita da Miss Pony e Suor Maria ed educata ad una profonda religiosità. Sulla vetta della casa spicca una croce, come sulle porte. La sera in cui decide di partire verso la prima famiglia adottiva, Miss Pony le mette al collo la “croce della felicità” e Suor Maria le regala un pigiama con ricamato il suo nome, quasi a volerle rammentare di chi è veramente. Le raccomandano di farsi sempre forza, di continuare ad essere allegra e di non disperarsi mai! La vestono con preghiere premurose, implorando Dio di benedirla!

Candy durante la sua vita torna spesso in questa casa per ritrovare se stessa, vincere le paure, risentirsi utile, rifocillarsi nel corpo e nello spirito. A casa di Pony respira aria buona, fa scorta di energia! Affronta le avversità della vita con uno spirito allegro, felice, costantemente messo a dura prova. Lei resiste perché le è stato insegnato a farlo con Gesù! È vero, piange (e tanto), ma è sempre più convinta che il futuro sarà migliore: ha una profonda fede che alimenta una contagiosa speranza! Sa che la Divina Provvidenza non l’abbandonerà mai! Fa continuamente esperienza dell’aiuto provvidenziale che le giunge spesso in modo inaspettato e misterioso. Pare posarsi sulla nuda e crudele quotidianità con candida leggerezza (bianca e soffice come la neve) perché le regole della casa di Pony, sin dalla tenera età, le hanno insegnato ad utilizzare quelle leve necessarie ad elevarsi, a tenere alto lo sguardo! Coltivare grandi desideri, sorridere alla vita, avere forza e coraggio, essere grata di ogni cosa, amare se stessa ed il prossimo, rispettare la natura, assecondare la volontà del Signore ed essere certi della Sua continua premura! Il suo amore matura perché queste regole le porta “dentro” immutate: le permettono di non perdere il suo bel sorriso! E c’è sempre qualcuno pronto a ricordarglielo…

Che ci sia qualcosa di soprannaturale nella casa di Pony è evidente! Vi siete mai chiesti perché gli unici personaggi a non invecchiare lungo tutta la vita di Candy siano proprio Miss Pony e Suor Maria? Ve ne siete accorti? Tutti crescono, ma loro rimangono tali e quali.

È chiaro! La fede mantiene lo spirito vivo e giovane perché è il vero elisir della lunga vita, quella eterna!

“La metafisica e i cartoon spiegati a mio figlio” di Angelo Mazzotta

Mi capita spesso di discutere con mio figlio su quali cartoni andavo spendendo le mie ore pomeridiane quando avevo la sua età… Le condizioni di partenza sono però diverse: lui ha interi e svariati canali tematici che sparano ogni sorta di cartone a tutte le ore (magari su più dispositivi, potendoselo gustare anche da solo), io avevo qualche ora al pomeriggio da condividere necessariamente con altri (unico era il televisore) e i cartoni li sceglieva mamma Rai o papà Silvio… I pomeriggi, dal lunedì al venerdì, lui rientra a scuola, io uscivo a giocare… Lui pratica Judo una volta a settimana, io avevo la strada per palestra tutti i giorni…

Rimanendo sullo sport, gli ho raccontato di quelli che riuscivano a farci muovere “agonisticamente” con la fantasia, stando seduti, ma strategicamente piazzati, di fronte ad un ancora funzionante “Indesit” arancione 12 Li, una tele B/N con antenne esterne allungabili ed un salvaschermo a prova di incaute azioni emulative esterne… Sto parlando di quel lungo filone di cartoni nipponici degli anni 70/80 relativi al calcio, alla pallavolo, al tennis, al baseball, alla pesca… Tanti sport cartonati per una generazione che forse non poteva permettersi di seguirne uno dal vivo. Per carità c’era anche chi, tra noi ragazzini, riusciva a giocare per la squadra locale, ma dopo aver sudato e sbucciato diverse ginocchia lungo le strade sterrate, in campi incolti, tra piante di fichi d’india e spesso già da “fuori classe”, nel senso che si dribblava astutamente la scuola per potersi ritrovare a giocare… preferendo un 10 sulla maglia che in pagella!

Chi come me viaggia sui quaranta ricorderà certamente la serie “Holly e Benji, due fuoriclasse” (che non marinavano…). Il ragazzino giapponese dal nome inglese, Oliver Hutton, detto “Holly”, desidera vincere il campionato mondiale di calcio insieme a Benji Price, imbattibile portiere, suo primo sfidante e poi carissimo amico, perennemente infortunato tanto che a distanza di tempo mi chiedo perché mai il suo nome sia finito nel titolo… Mah, misteri giapponesi! E non è l’unico… Se vi intriga la storia potete googlarla (siccome noi moderni papà siamo tutti un po’ bradipi, ma solidali, ve l’allungo qui).

Prima di addentrarmi nei misteri calcistici di Holly e Benji, non posso non accennare ad una precedente serie, forse la prima in Italia, la capostipite del filone calcistico: “Arrivano i Superboys”. Storia di una squadra tosta, forgiata con sadici ed inverosimili allenamenti, le cui gesta sono accompagnate da una strombettante sigla alla Village People (in verità interpretata dagli Eurokids, qui) di cui ancora ignoro il significato e i cui palloni venivano calciati con la grazia del Wing Chun di Yip Man, insomma partite cartonate anni 70 che anticipano di qualche decennio il Shaolin Soccer (eccone un assaggio qui)…

La serie di Hutton non si discosta molto nelle movenze e nelle acrobazie, ma i toni sono meno violenti, gli allenatori più piacioni e la sigla pare presa in prestito dalla Fisher Price (potete ascoltarla, ma non troppo, qui). Pensandoci ora faccio più caso a quelle assurdità che come bambino non coglievo… Innanzitutto rimango perplesso dalla lunghezza del campo; nelle azioni di gioco si intravvedeva la porta come posta su di una collina, i famosi tre quarti, ma occorrevano diverse puntate per raggiungerla… Una specie di salita sul monte, la cui fatica era ben espressa non solo dal dolore dei loro muscoli (o dalle piccole meningi di noi spettatori) ma anche dall’ansia di vedere se il goal ci sarebbe stato o meno… Qualcuno ha effettuato dei calcoli e pare che il campo fosse lungo circa 18 Km… Distanze assolutamente irregolari e disumane ma per noi allora più che giustificate… Questa prateria veniva percorsa dai nostri beniamini ad un velocità di circa 50 Km/h, cioè 100 metri in 7 secondi, prestazioni da far impallidire Bolt! Le partite con questo ritmo potevano durare diverse puntate, quindi era prevedibile che qualcuno, come Julian Ross, il più talentuoso, potesse soffrirne (la sua cardiopatia probabilmente era indotta e non congenita…).

Se calciato a dovere, il pallone poteva mutare geneticamente in uno da rugby oppure viaggiare, se Mark Lenders ne aveva voglia, come la cometa di Halley, perforando guanti, reti, mura. Uno spettacolo ricco di effetti in barba ad ogni legge della fisica, ma alla portata di tanti tifosi, piccoli e grandi, dentro e fuori lo stadio (sempre strapieno anche per una partita infrasettimanale tra scolaresche…), dentro e fuori la TV.

Ma capitavano momenti ancora più surreali, più interessanti… In fase di dribbling, di tackle o salto per colpire la palla in volo, una strana energia sembrava impossessarsi delle nostre figurine nip-panini parlanti: il loro miglior gesto, l’azione decisiva che poteva segnare le sorti dell’incontro veniva improvvisamente dilatata nel tempo, estrapolata dallo spazio e proiettata in un’altra dimensione… Roba da far partire un embolo al nostro Piccinini!
Il tempo di un’azione veniva incredibilmente dilatato da ripetuti flashback sulla vita dei personaggi, sulle loro relazioni famigliari, amicali, sulle impostazioni di gioco da tenere in campo, sulle capacità dell’avversario… E noi dagli spalti casalinghi venivamo ulteriormente tele-trasportati in altri frammenti di storia che rendevano quei momenti sospesi ancora più carichi di enfasi, tensione e desiderio… Delle bolle temporali più piccole venivano così ingegnosamente gonfiate in altre più grandi, tanto da farmi ora sospettare che anche Christopher Nolan sia stato da giovane un loro fan…

Se poi la puntata dello stacco da terra veniva trasmessa il venerdì pomeriggio correvamo il rischio di attendere anche 8 giorni per assistere al definitivo calcio di un pallone anch’esso miracolosamente rimasto sospeso dinnanzi al mistico calciatore…
L’apparente immobilità della scena principale appariva, per l’appunto, come il teatro di un mistico rapimento premiante e successivo all’estenuante ascesi protratta con fatica lungo tutto il vastissimo campo…Sta di fatto che dopo aver così contemplato, l’azione di Hutton diveniva ancor più efficace, finalizzando goal impossibili e portando la squadra alla vittoria!

In qualche modo Hutton ci insegna che proprio questa apparentemente inutile dilatazione del tempo di un’azione si ottiene solo se si concede a questa il tempo della contemplazione… Fare un esame della propria vita rendeva Hutton più convinto e decisivo nell’atto di calciare, tutte le energie spese per ascendere alla porta, venivano ricompensate e nuovamente catalizzate da una forza mistica propiziata da un rientro in sé stesso… Sembra suggerirci che il tempo è relativo ed il movimento si estrinseca mirabilmente in esso (alle elementari in Giappone evidentemente si studia anche Einstein!!). Come dire che si potrebbe pregare sempre, in ogni circostanza, anche in movimento non perdendo il fine dell’atto, anzi rendendolo più facilmente raggiungibile e l’atto stesso più conforme. Ancor di più, prediligere un momento “intenso” di contemplazione sull’Altro, su Colui che è il Signore del tempo, ce lo fa guadagnare! Perché, non togliendoci nulla, Lui lo moltiplica per tutte le nostre necessità! Durante lo scorrere del resto della giornata basta rivolgerGli lo sguardo guardando l’altro per riallacciarsi a quell’intensità, per riscoprire quelle relazioni fondamentali di cui è intessuto tutto il nostro tempo… Spesso mi lamento di non avere tempo, eppure se mi stacco un attimo dall’azione convulsa, portandomi all’attenzione del mio cuore, riesco a riprendere i miei impegni vivendoli con maggiore intensità e scopro di avere addirittura un figlio che mi stimola a rivedere i miei ricordi sotto altra luce. Scopro di avere ancora altro tempo.

Se penso ai grandi santi, non riesco a non scorgere in loro la grande importanza che hanno riservato alla preghiera personale, la stessa Santa Teresa di Calcutta prima di raggiungere i propri malati curandoli e amandoli così efficacemente, dedicava tantissime ore alla preghiera per avere riposte, indicazioni e la forza da Chi poteva senz’altro fornirgliele.

La relatività di Hutton, con un pizzico di fantasia, potrebbe essere intesa come una sorta di legge meta-fisica che caratterizza la vita del “contemplattivo”, cioè quella di un atleta contemplativo e attivo allo stesso tempo: attivo nella contemplazione e contemplativo nell’azione. Questo meccanismo di dilatazione del tempo non soffre il limite dello spazio, funziona ovunque ed è studiato per cercare quella dimensione eterna che rende la temporale più umana, gravida, vivibile in ogni sua profondità, capace di offrire nuove ed inimmaginabili estensioni. Se si contempla si riflette e le azioni diventano più efficaci, si impara a vivere per come si pensa, evitando di finire per pensare come si vive.

Certo non si può pensare sempre a Dio, è umanamente impossibile e non è necessario, basta però, oltre al momento della giornata più intenso, pensarlo “spesso” e “ovunque” perché “tutto” diventi preghiera, seminando qua e là giaculatorie come benedizioni anche nelle più piccole azioni quotidiane. Così facendo queste acquistano una valenza eterna, il tempo che vi dedichiamo diventa incredibilmente vissuto più in profondità. È un esercizio quotidiano che richiede dedizione, disciplina, allenamento e qualcuno che ci guidi. Ma non è forse un vero atleta colui che si esercita nelle virtù? Prendiamoci del tempo per continuare a viverlo meglio, rallentiamo per muoverci … Non è forse l’accelerazione della storia ad allontanarci dall’eternità?