Fr. Fidelis Moscinski, dei Franciscan Friar of the Renewal, un ordine di frati che vive a New York e che seguiamo perché uno di loro, Brother Isaiah, scrive canzoni da paura, è stato arrestato per aver parlato a delle donne in una clinica abortiva consigliando di tenere i loro bambini. A questo link trovate l’articolo in cui si riporta la vicenda, compresa la frase di una persona presente durante l’accaduto: “Grazie padre, grazie di essere un sacerdote di Dio”.

Qui di seguito una traduzione (Google translate…) di una dichiarazione ufficiale dei frati (che potete leggere in lingua originale a questo link) risalente allo scorso anno, in cui si informa dell’attività che svolgono in difesa della vita.

Una parte essenziale della nostra opera di evangelizzazione e cura dei poveri è la testimonianza pubblica e orante della santità della vita umana, dal concepimento alla morte naturale. Riconosciamo che il diritto umano alla vita è il fondamento di una società giusta e pacifica. Inoltre, riconosciamo che coloro il cui diritto alla vita è negato, per qualsiasi ragione, sono veramente poveri e hanno più bisogno del servizio cristiano e del potere salvifico del Vangelo. Attraverso le nostre preghiere, la testimonianza pubblica e la solidarietà con i non nati, gli anziani e tutti coloro le cui vite sono minacciate dalla morte come soluzione proposta ai problemi, cerchiamo di sostenere il diritto alla vita e alla dignità di ogni essere umano. Cerchiamo di farlo in una varietà di opere e impegni apostolici, tra cui sostenere centri di gravidanza in crisi e case per madri in attesa, preghiera e consulenza nei luoghi in cui si verificano aborti, ritiri spirituali per coloro che sono stati colpiti dall’aborto. Le Costituzioni e il Direttorio dei Frati Francescani del Rinnovamento prevedono che “con i permessi appropriati, i frati non esitano a partecipare ad atti di obiezione di coscienza alle azioni che attaccano l’inviolabilità della vita umana e cercano di rompere il legame comune di solidarietà umana”. A questo proposito ricordiamo il chiaro insegnamento di Papa Giovanni Paolo II nel “Vangelo della Vita” che ci ricorda che l’aborto è un crimine che nessuna legge umana può pretendere di legittimare. Non vi è alcun obbligo in coscienza di obbedire a tali leggi; invece c’è un obbligo grave e chiaro di opporsi a loro per obiezione di coscienza. Fin dagli inizi della Chiesa, la predicazione apostolica ha ricordato ai cristiani il loro dovere di obbedire alle autorità pubbliche legittimamente costituite (cfr Rm 13,1-7; 1 Pet 2: 13-14), ma allo stesso tempo ha fermamente avvertito che “dobbiamo obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (Atti 5:29). Nell’Antico Testamento, proprio per quanto riguarda le minacce contro la vita, troviamo un significativo esempio di resistenza al comando ingiusto di chi ha autorità. Dopo che il faraone ordinò l’uccisione di tutti i maschi appena nati, le ostetriche ebraiche rifiutarono. “Non fecero come il re d’Egitto comandava loro, ma lasciarono vivere i figli maschi” (Eso 1:17). Ma la ragione ultima della loro azione dovrebbe essere annotata: “le ostetriche temevano Dio” (ibid.). È proprio dall’obbedienza a Dio – a chi solo è dovuto quel timore che è il riconoscimento della sua assoluta sovranità – che nascono la forza e il coraggio di resistere alle ingiuste leggi umane. È la forza e il coraggio di coloro che sono preparati persino ad essere imprigionati o messi alla spada, nella certezza che questo è ciò che rende “la perseveranza e la fede dei santi” (Ap 13,10). (Cf. The Gospel of Life, n 73). Pertanto, ricordando la testimonianza pro-vita di molti che hanno cercato di salvare i bambini non ancora nati e le loro madri dall’aborto, in particolare l’attività ispiratrice del vescovo Austin Vaughn, il vescovo George Lynch e il nostro p. Benedict Groeschel, CFR sosteniamo pienamente il nostro confratello, p. Fidelis Moscinski, CFR mentre si unisce ad altri nel “Salvataggio delle rose rosse”. Lui, insieme ad altri individui in un certo numero di città degli Stati Uniti, ha cercato di persuadere le madri che cercano l’aborto invece di scegliere la vita per se stesse e per i loro bambini. Hanno raggiunto con amore e compassione e offerto alternative che affermano la vita. Infine, come discepoli di Gesù Cristo e seguaci di San Francesco d’Assisi, chiediamo a tutte le persone di riconoscere, rispettare e difendere con zelo il diritto alla vita dei nostri fratelli non ancora nati, di raggiungere le madri e i padri in gravidanze in crisi e lavorare insieme per costruire un’autentica cultura della vita.

Lettere a una moglie #2 (ovvero l’esodo del duo con l’anello noto in tutto il mondo come Mienmiuaif) di Giuseppe Signorin

Siamo tornati a casa il giorno del funerale di Alfie, amore mio. Su Facebook, in queste ore, si parla tanto di un altro manifesto contro l’aborto che vorrebbero rimuovere. Giovedì scorso uno scienziato di 104 anni ha deciso di farla finita in Svizzera ascoltando l'”Inno alla Gioia” di Beethoven. I morti viventi, oltre a uccidersi e a uccidere pure chi vuole vivere, come il piccolo Alfie, vogliono uccidere il desiderio di vivere e sostituirlo con il desiderio di morire. Morire “dolcemente”. Vade retro morti viventi. Tornati in Italia, sembra di abitare in un film di Dario Argento o George Romero. A dire il vero, anche alcuni episodi del nostro mini viaggio a Medjugorje ricordano un po’ i film di Dario Argento e George Romero. Come la prima sera, di ritorno dalla Croce Blu, ai piedi dell’impronunciabile Podbrdo (ti viene in mente una marito-moglie band dal nome altrettanto impronunciabile…? Vedi tuo marito? Si è ispirato all’impronunciabilità di un monte santo), quando siamo stati spaventati da un serpentello spiaccicato sull’asfalto, proprio dove stavamo per mettere i piedi. In quel momento una macchina rallenta alle nostre spalle… Terrore allo stato puro… Invece è Marija Pavlovic, una delle veggenti. Ci chiede se abbiamo bisogno di un passaggio. Eravamo quasi arrivati a destinazione, non avevamo bisogno di alcun passaggio, ma quell’incontro del tutto inaspettato ci ha ricordato una cosa: che non dobbiamo avere paura dei serpenti, ci pensa la Mamma. La sera dopo, altro episodio da film horror. Stiamo tornando in macchina verso la pensione in cui alloggiamo, quando vediamo un sacerdote a piedi lungo la strada, in una zona isolata. Ci fermiamo e gli chiediamo se ha bisogno di un passaggio. Entra in macchina e inizia a parlare inglese. Per me, horror allo stato puro. Annuisco alle sue parole, poi a un certo punto vuoto il sacco e gli dico che non ci capisco nulla di quell’idioma. Tu invece lo parli meglio di lui. Alla fine scopro che è un salesiano di Chicago. Mi suggerisci di confessarmi, visto che non ero ancora riuscito a farlo. Me lo suggerisci candidamente. Il tuo solito modo di prendermi per i fondelli, senza neanche accorgertene, come se si potessero confessare peccati che non si sanno dire. O forse avrei potuto adattarli al mio inglese, confessare che ho ucciso un gatto sul tavolo (per chi non avesse studiato: “I killed a cat on the table”). Magari a Chicago sono cose che capitano. Ecco… Comunque, gli episodi horror di Medjugorje avevano tutt’altro sapore rispetto al clima che si respira qui in Italia. Almeno a Medjugorje è pieno di antidoti. Antidoti che funzionano – preghiera, digiuno, o quello che i Padri della Chiesa chiamavano “farmaco d’immortalità”. L’Eucarestia. Cristo, Dio. Il Pane che fa miracoli, che nutre e ispira opere come il centro “Sì alla vita”, dove siamo stati, dove aiutano le donne in estrema difficoltà a portare a termine gravidanze difficili, e poi le proteggono, le accompagnano, si prendono cura di loro e dei loro bambini. Dove tutti gli sforzi sono rivolti a salvare la vita, non a risolvere i problemi eliminandola. Qui invece si punta tutto su altri tipi di farmaci. I farmaci dei morti viventi. “Dio è medico e medicina”, ripeteva spesso san Leopoldo, che ha compiuto gli anni insieme a te a Medjugorje il 12 maggio. Noi eravamo lì con lui, vicini alla statuina a grandezza naturale accanto ai confessionali, a lato della chiesa. Che Dio venga presto, con il Suo Regno. Ti amo.

 

Se ti è piaciuta la lettera e sei interessato al “prequel”, clicca qui: Lettere a una moglie #1 😎

(articolo di Giulia Bovassi uscito su Notizie Pro Vita)

La notizia della Polonia ha fomentato in Italia un forte vociare di motti sessantottini attorno all’aborto: dall’imprescindibilità del diritto di scelta e di autodeterminazione della donna, al fatto che vi sarebbe prima un “grumo di cellule” e poi un “feto”, il quale non ha dignità né posizione ontologica alcuna finché “sosta” nell’utero materno.

Slogan che si mantengono identici in una società che sembra globalmente ignorare l’entità della questione dell’aborto, nel momento in cui si portano argomenti come: le metodologie abortive; l’antropologia dell’embrione; la sindrome post-aborto; etc…
In modo particolare quest’ultimo fronte, nella maggioranza dei casi, è totalmente oscurato dall’informazione (dis-informazione) mediatica e sanitaria, motivo per cui la donna, che il più delle volte decide per la soppressione del figlio in capo a spinte/convinzioni sociali-culturali date per assodate, non sa vedere lucidamente il dramma dell’aborto fintantoché non vive da protagonista l’illusione di pensare se stessa, già madre, come indifferente alla vita che porta in grembo.

Accade oggi che a testimoniare la fallacia dell’affermazione che una vita embrionale “non è vita”, non è persona, non è degna, sono anche realtà come quelle dei cosiddetti “cimiteri per i bambini mai nati” presenti in varie città, circa cinquanta: Canicattì, Cassola e San Zeno, Bassano, Bologna, Monteviale, Cremona, Roma, Firenze, etc. Spazi nei quali i genitori decidono di seppellire i loro bambini, deceduti per aborti spontanei o soppressi mediante aborti volontari. La sepoltura e il rituale medico-burocratico che accompagna il bambino in cimitero sono i medesimi che si adoperano per qualsiasi altro defunto, così come previsto dall’art. 7 commi 3 e 4 del D.P.R. 10.9.90 n. 285 (e la circolare Donat Cattin del 1988), il quale prevede l’inumazione dei «prodotti abortivi», così come li definisce.

La discrepanza tra visione ontologica e biologica di quell’essere umano, considerato un “prodotto abortivo”, stride quando fa i conti con la realtà effettiva della gravidanza: i nove mesi sono un periodo gestazionale calendarizzato dal momento del concepimento a quello del parto. Significa che ogni donna sa di accogliere una vita diversa dalla sua dal momento in cui due cellule di 23 cromosomi si uniscono per dare origine ad una nuova cellula, con patrimonio genetico proprio e distinto da quello genitoriale, suo statuto e identità. Un individuo unico e irripetibile, che procede al suo sviluppo autonomamente grazie alla completa informazione genetica che porta il suo genoma, e comunica con la madre già nelle primissime ore come testimonia la presenza nel sangue di una proteina, la EPF (Early Pregnancy Factor) avente proprietà immunosoppressive e connessa anche alla crescita e alla proliferazione cellulare, a predisposizione di un ambiente favorevole alla crescita del bambino. Dai più recenti studi, la moderna embriologia ha ampiamente riconfermato l’effettività di quei principi epigenetici di gradualità, coordinazione e continuità: l’inizio del battito cardiaco al 18°-20° giorno, le onde elettriche rilevabili dal 48°-50°, udito dalla 23° settimana, vista dalla 24° (il feto risponde a stimoli luminosi e alla luce solare), memorizzazione della voce materna, di odori e sapori, riconoscimento del battito cardiaco e del respiro della madre, e molto altro ancora.

Ogni donna sa chi porta in grembo dal momento stesso della sua generazione, e per tutta la vita sarà portatrice della traccia indelebile di quella presenza. Ammessa o ignorata, questa consapevolezza è il fattore scatenante la sofferenza e il disagio psichico, emotivo e spirituale che la madre vive a seguito di un’interruzione volontaria. Ci sono tre quadri psichici principali: la psicosi post-aborto di natura psichiatrica (comporta uno scollamento completo dalla realtà); il disturbo post-traumatico da stress; sintomatologie di varia natura che comprendono ansia, depressione, ideazione suicidaria, tentato suicidio e diminuzione dell’autostima. Disorientamento e instabilità avvicinano la donna a presunte facili soluzioni, come alcol, droghe, psicofarmaci, disturbi del sonno, dell’intimità, frattura relazionale con il partner, problemi alimentari e atteggiamenti ossessivo-compulsivi. Su questa linea si innesca il bisogno di dare un nome al bambino, di ricordarlo con date, oggetti, simboli a far sì che il lutto possa trovare la chiave per l’elaborazione soggettiva, e poi familiare. In tal senso avere un luogo nel quale contemplare e dialogare con il bambino è una sorta di esigenza che diviene supporto spirituale e psichico per riavere quella presenza perduta.

Una certa accidia intellettuale persuade le donne sulla loro autodeterminazione facendo credere che possa sussistere una libertà senza responsabilità e che lo spessore di questa arbitrarietà basti per la licenza di giudicare un individuo umano, che è già in atto, come l’indefinito in attesa di uno statuto. Misconoscere l’essere persona di una persona è la più grande offesa che si possa fare al genere umano, che la stessa accidia intellettuale ha convertito nella tomba interiore che soffoca donne che sono a loro volta madri, e a loro volta figlie.

“Bendessa” di Cecilia McCamerons

“Butteresti via tuo figlio solo per un cromosoma in più?”

All’interno di un gruppo Facebook di mamme si parlava di aborto e, in un post in cui si accennava alla possibile soppressione di un feto con sindrome di Down, io ho scritto questo.

Apriti cielo. “Ognuno in propria coscienza deve essere libero di fare le sue scelte”, “non ti puoi permettere di giudicare”, “ma che termini usi? il bambino non lo butti via”, “con te non prenderei nemmeno un caffè”, “farà lei le sue scelte secondo coscienza”, “parli così perché sei sicuramente ignorante”, “è una sua scelta che avrà preso in coscienza”… Ecco l’idea delle risposte alla mia domanda.

Non so perché ma certi atteggiamenti, certe risposte non me le aspetterei da una donna, e perciò mi colpiscono di più. La mia “me” incazzosa manderebbe a quel paese tutti dopo i primi commenti denigratori, mentre quella ipertrofica vorrebbe salvare il mondo da sola e possibilmente subito, altro che libertà di scelta e libero arbitrio ecc. Ma la mia “me” idealista spera ancora nella coscienza buona dell’essere umano e in particolare della sua metà femminile, per natura propensa all’accoglienza e al sacrificio di sé. (Con questo non voglio assolutamente entrare – oggi – nella discussione donne-meglio-degli-uomini o viceversa: ringrazio semplicemente Dio perché ci siamo entrambi! Vi immaginate un mondo di sole donne magari col ciclo coincidente…?).

Sì, invece che “buttare” potevo scrivere “far uscire dall’utero artificialmente e prima del tempo così che non sopravviva” o “abortire terapeuticamente” ma non sono un’amante dell’antilingua e dei giri di parole: amo la verità.
Mi ha colpito molto l’insistente riproporsi della coscienza libera di ciascuno. Certo ognuno (maggiorenne capace di intendere e volere) decide da sé ma credo che possa fare una scelta davvero libera se conosce la verità, cioè che suo figlio c’è già, esiste anche se ha un numero di cromosomi maggiore o il labbro leporino o una mano mancante, non se gli raccontano che abortire è la fine della sofferenza sua e del figlio.
Che poi… decidere con criterio e lucidità di abortire non è pure un’aggravante? Vabbè.

Tutta questa ponderatezza mi fa pensare per contrasto netto all’imprevedibile, inspiegabilmente naturale Mistero dell’aborto spontaneo: una giovane amica qualche giorno fa ha dato alla luce la sua bimba morta. All’enorme dolore che può provocare questo evento nella vita di una mamma e di una famiglia, accosto il dolore dell’aborto “volontario” che però viene taciuto, nascosto – come un vero tabù – ma che prima o poi si presenta nella vita della donna, ma anche del papà.

Come ha trovato me, lascio a te, lettore, questo interessante intervento della dottoressa Cinzia Baccaglini intitolato “L’aborto non lascia traccia?”.  Che ha come presupposto, per dirla con parole sue, “la verità nella carità, ma per carità la verità!”.

Lo stesso giorno di questa discussione mi raggiunge via radio la bellissima notizia della nascita al Policlinico Gemelli dell’Hospice Perinatale “non un luogo ma un modo di curare il feto e il neonato. Anche nelle condizioni patologiche più estreme si può dare speranza di prevenzione, cura e sollievo del dolore accompagnando non solo il feto con tutto l’approccio scientifico e clinico ma anche le famiglie. È questo il vero fondamento della medicina della speranza”  https://it.zenit.org/articles/lhospice-perinatale-come-risposta-scientifica-etica-ed-umana-alla-diagnosi-prenatale/ Il prof. Giuseppe Noia, Direttore della UOC Hospice Perinatale del Gemelli, dice che questa iniziativa si pone tra “due modi di pensiero antropologicamente opposti: il primo vive dell’illusione che eliminando il sofferente si possa eliminare la sofferenza, il secondo invece nel rispetto più totale della preziosità della vita umana, senza guardare alle dimensioni dell’essere umano ma solamente al suo valore, cerca di prevenire le malattie, cerca di curarle, cerca di limitare i danni fisici e psicologici del malato e delle famiglie, cerca di lenire la sofferenza fisica e psicologica, forte dell’assunzione di tre metodologie per affrontare la sofferenza umana: prevenire, curare, lenire il dolore”.

Anche a noi spetta la scelta del mondo che vorremmo.

Alle mamme e ai papà che devono portare la croce di un aborto spontaneo, alle mamme a cui viene taciuta la verità, alle mamme consapevoli: bendessa!

 

“Bendessa” di Cecilia McCamerons

Parlare di qualcosa è diverso da viverla.

Una precisazione forse eccessiva, che non vuole essere un rimprovero: infatti un cardiochirurgo può benissimo parlare di infarti senza averne avuto uno e un sacerdote cattolico di Matrimonio senza essere sposato.

E così la novità. Due lineette rosa: la conferma della tua presenza già da qualche mese nelle mie viscere, piccolo tenace esserino umano! È stata una grande gioia scoprire questo Dono: io e mio marito siamo molto felici!

E così da semplice sostenitrice “a parole” della vita dal suo concepimento mi ritrovo a portarne una piccolissima dentro di me ma che dall’inizio si difende e si fa sentire – con nausee e corredo di sintomi arci noti.

Questo avvenimento mi ha aiutata ancora ad approfondire e mi ha dato occhi nuovi. Mi ha fatto tanto pensare: com’è possibile che ho visto in ecografia alla sesta settimana il cuore pulsante di mio figlio e qualcuno osa dire che nei primi tempi di gestazione è solo un grumo di cellule e non una persona? Com’è possibile eliminare quel bambino con l’“aborto terapeutico” – che assurdità la sola espressione – fino al terzo mese, ovvero quando è già completamente formato?

Una mamma non eliminerebbe mai quell’esserino se messa davanti alla verità e cioè che dentro di lei è già partita una nuova vita, che dipende da lei quasi in tutto ma che le è estranea. Una donna, soprattutto se sola, avrebbe bisogno di sostegno e incoraggiamento e non di vie di uscita apparentemente facili che non le impediranno di essere madre ma la renderanno madre di un bambino morto…

La Beata Madre Teresa di Calcutta, nel suo autorevole discorso in occasione del conferimento del Premio Nobel per la Pace nel 1979, disse che “il più grande distruttore della pace oggi è l’aborto”: infatti, “se una madre può uccidere il proprio stesso bambino, cosa mi impedisce di uccidere te e a te di uccidere me? Nulla.” Credo che queste parole siano vere e che ne possiamo trovare riscontro nella società occidentale di oggi così dilaniata e sofferente.

Il mio Bendessa oggi va a tutte quelle persone che si impegnano a favore della vita dal suo concepimento, a coloro che aiutano le donne in difficoltà, alle donne che portano in grembo una nuova vita perché siano coscienti del ruolo importantissimo che hanno nella famiglia e nella società e del Dono a loro affidato.

Viva la vita!

Bendessa!