by Rosa Evangelista, una ragazza di 17 anni che c’ha mandato questo articolo scritto in stile “Mienmiuaif” pubblicato nel blog della sorella Anna – ilblogdiunrabarbaro – e che noi condividiamo stravolentieri

I santi sono pazzi.

Se pensi di essere trasgressivo perché metti il calzino fluorescente o perché usi l’aggettivo “medievale” come se fosse prezzemolo, beh, non lo sei.

Non sarai mai trasgressivo e ribelle come i santi.

Se li togli un attimo dalla posa santino (che fa comodo a molti cattolici) dove i santi appaiono mezzi smorti, i loro cuori selvaggi iniziano a stravolgerti l’esistenza e farti tremare le gambe dalla paura.
Questi ragazzetti sono imprevedibili, liberi, scandalosi, belli. Attraenti più di Derek di Grey’s Anatomy.
Se tu li lasci un po’ fare, ti iniziano a prendere a schiaffi. Prendono a schiaffi il cattolicesimo borghese da “rito vuoto”, la slealtà con cui baratti i tuoi desideri infiniti con robetta da quattro soldi (inseguendo il perché fanno tutti così), il buonismo spiritualoide da cuoricino glitterato. Come se Cristo, duemila anni fa, avesse fondato il Club della Gentilezza, invece di morire in croce per guarirci dal marciume e dallo schifo che ci portiamo dentro.
Ancora non è chiaro? I santi spaccano, sono dei tosti veri!
Io ho diciassette anni e mentre tutto il mondo mi offre “bocconcini Bio senza conservanti con latte da mucche pettinate con cura ogni giorno”, in realtà mi sento una gattaccia affamata di vita, di amore roccioso e cose verespessevive.

Chiara d’Assisi a diciotto anni (ripeto, diciotto) scappò di casa di notte, si fece tagliare i capelli lunghi e setosi da pubblicità Pantene, vendette la dote, tutto mentre il padre la inseguiva dappertutto a cavallo, arrabbiatissimo (chiudi gli occhi per un secondo e immaginati la storia al giorno d’oggi).

Un martire cantava e saltellava mentre andava verso il Colosseo dove i romani, di lì a poco, l’avrebbero fatto sbranare da belve feroci. Ed era felice.

Giovanni Paolo II si ricordava del volto di tutte le persone che incontrava, anche se solo per un secondo.

L’assassino di don Pino Puglisi non riesce a togliersi lo sguardo bruciante di 2P dalla testa e infatti ha cambiato vita. È il brillio degli occhi di un secondo, che fa impressione a un sicario della mafia.

E io dico, chi ha colpito chi? Chi ha vinto? Come fanno sempre a vincere queste donne e uomini?
Quando l’ho scoperto mi è venuta l’orticaria, un fastidio, una paura da cani. Chi c’è sotto?

La verità è che lo sguardo di Cristo ti rimane appiccicato addosso peggio della Vinavil, anche del Super Attak. Lo sai che non è come tutti gli altri. È peggio di quei braccialetti che ti danno ai villaggi vacanze, che non si tolgono manco se ti stacchi la mano.

I santi sono i veri vincenti, e noi gli sfigati della situazione.

E allora ho capito: io non la voglio una felicità piatta. È robaccia. È di una noia mortale. È di una piccolezza insopportabile e logorante. È il peggio del peggio che c’è. È da gentaglia che va al fiume per cambiare l’oro in stagno, come canterebbe De Gregori.
E se dici che a te questo basta, io non ti credo, tanto poi se parte la canzone romantica che dice “io ti amo infinitamente”, alzi il livello dei mari di chilometri per la quantità di lacrime versate.

Io non voglio essere una persona moderna, io voglio essere una persona eterna. Io voglio uno sguardo che cambia il mondo, un cuore così selvaggio, così libero, così bello.

Niente di zuccheroso e mieloso da far venire da vomitare, non un insensato andrà tutto bene, ripetuto fino allo sfinimento.

La santità è roba seria.

San Francesco non era un hippie pacifista senza cervello. Era uno che prima di essere santo voleva fare il cavaliere e che aveva tutto, ma si sentiva vuoto lo stesso.

Se ti autoconvinci che la vita sia tutto qui, mentre il tuo cuore è un disastro, forse manca qualcosa. Leopardi, infatti, non era pessimista, ma solo il più realista di tutti. Perché, o Cristo salva, o non serve. O è niente, o è tutto. Non può essere uno dei tanti gusti che trovi in gelateria.

O Dio è il cono, o è inutile e puoi anche non andarci in chiesa.

“Ma io così…”, “ma no, perché…”. Blablabla. Solo muffa!

Essere santi non è roba da perfezionisti, anzi! I santi sono come quelli che vanno dalla sarta con quattro stracci, e mentre il mondo li assembla e crea un costume da Arlecchino, con quel poco Dio ti fabbrica un vestito da sera strepitoso (magari anche con lo spacco).

E tutti si chiedono: “Ma come ha fatto?!”.

E i santi rispondono: “Boh, glieli ho solo dati tutti!”.

Insomma, per me i santi sono l’hot topic che dovrebbe essere sulla bocca di tutti. Loro ci mostrano, come veri #spiritiguida, quanto spaziale – irripetibile – felice – bella – grande – piena, possa essere la nostra vita.

Perché, in fondo, la nostra patria è la pienezza della vita.

(Per il seguente articolo non è stata maltrattata nessuna sorella)

di Giuseppe Signorin

Gli elenchi non li sopporto (I tried to improve my english in 5 steps but I only know how to use Google translate). Quindi immaginate la vergogna nel proporvene uno. Però l’ultimo articolo su questo blog, Ho la fede a meno di zero (e siamo un esercito), ha innescato una serie di reazioni per cui mi sono venute in mente 5 mosse di karate per chi volesse tentare di arginare la dilagante emorragia di fede – soprattutto interna. Funzionano? Io ci sto provando, sono cintura bianca e temo di rimanerlo a vita, il bianco mi piace, sono papista, però, nella fede, come nelle arti marziali, bisogna a un certo punto buttarsi: rimanere lì lì, in bilico, non serve a nulla.

MOSSA DI KARATE NUMERO 1: pregare. Sì, perché pregando si impara a pregare ed è proprio nella preghiera che bisogna chiedere la grazia a Dio di aumentare la nostra fede. O di farcene il dono, qualora fosse del tutto assente. Sembra un paradosso, ma a differenza del karate e di tutte le discipline e religioni orientali, non è tanto sulla nostra forza che dobbiamo contare per conoscere di più Dio, quanto sulla Sua. Pregare significa lasciarGli spazio, poi ci penserà Lui.

MOSSA DI KARATE NUMERO 2: la volontà. Ma pregare è già un atto di fede! Esatto, infatti bisogna un po’ buttarsi. Decidere di buttarsi. Così come l’amore, la fede non va confusa con un sentimento. È piuttosto un atto di volontà. Voler credere: decidersi per credere. Voglio credere, mi butto, prego Dio che aumenti la mia fede. Il tutto senza fasciarsi troppo la testa. Ragionare è un bene, ma le paranoie no e oggi molti ragionamenti sono paranoie.

MOSSA DI KARATE NUMERO 3: ascoltare testimoni. Diceva san Paolo VI: “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni”. I maestri, in effetti, aiutano chi la fede ce l’ha già. Aiutano a entrare nel Mistero, a scandagliarlo, a contemplarlo. Ma se la fede non c’è, è dura. Meglio ascoltare o leggere persone che hanno fede (il top sarebbe incontrarle dal vivo, ma al momento siamo ostacolati dalle circostanze). Chi ha fede, trasmette la fede. In questi tempi bui, si possono trovare numerose testimonianze anche su Internet.

MOSSA DI KARATE NUMERO 4: condividere la fede. Già, la fede muore se rimane ferma e nascosta dentro le persone. Deve circolare, per crescere. È bene quindi condividerla, parlarne. Lo stesso annuncio rende in qualche modo presente Cristo. Sant’Antonio predicava ai pesci. Chi non ha un pesciolino o un gattino o un cagnolino, o anche solo qualche mosca, a casa, a cui annunciare la buona novella?

MOSSA DI KARATE NUMERO 5: lodare Dio in ogni tempo. Ringraziare, lodare Dio. Quello che viene chiamato “sacrificio di lode”. Imparare a rendere grazie e lodare Dio per ogni cosa, bella e brutta. La perfetta letizia di san Francesco, quando gliene capitava di ogni; o il testamento spirituale di santa Bernadette, in cui ringrazia per tutte le peggio cose che le sono successe in vita. Perché Dio ci ama e ha un progetto d’amore per noi, quindi in ogni circostanza è bene lodarlo e ringraziarlo, dandogli così totale fiducia. Questo esercizio quotidiano può aumentare di molto la nostra fede.

Gran finale: ognuna di queste 5 mosse di karate andrebbe approfondita e soprattutto praticata. “Dai la cera, togli la cera…”. Intanto vi siete beccati l’elenco, ora se volete potete provare ad andare più a fondo nella questione e puntare ad altri colori della cintura: rosso martire, marrone o grigio frate, azzurro o blu suora, nero sacerdote, cintura tutta sbrodolata mamma con bambini piccoli, cintura nera quinto dan bambini piccoli che sbrodolano la cintura della mamma… Una cosa del genere.

di Giuseppe Signorin

Un po’ per non essere ridicoli, un po’ per non essere superstiziosi, abbiamo perso la fede. Io per primo. Credo di credere, ma non credo affatto. Me l’ha rivelato un sacerdote al telefono: “tu non credi a Gesù”. C’ho pensato alcuni istanti e c’aveva azzeccato. Io non credo a Gesù.

Mi hanno colpito un paio di cose, ultimamente:

  • Una cit di Carlo Acutis: “Quello che manca ai nostri giorni è la soprannaturalità”. Fresco di “beatitudine” da parte della Chiesa, il piccolo genio dell’informatica che impazziva per l’Eucarestia ha lasciato questo messaggio a mio parere chirurgico: “manca la soprannaturalità”. Per esempio io sì, magari credo che Dio esista, ma sicuramente non credo che Dio agisca in maniera soprannaturale. Non ci credo fino in fondo. Non ci credo in maniera semplice, immediata. Mille ragionamenti contorti contorcono la mia fede. A partire dai sacramenti: credo che quel pane è Dio? Che in confessionale Dio perdona i peccati? Che pecco e quindi muoio dentro e mi allontano dall’amore di Dio? Credo che Dio può compiere i miracoli, così sovrabbondanti nei Vangeli?
  • Questione non da poco che ci porta alla seconda cosa che mi ha colpito: la lettura del Vangelo di Giovanni (per i sinottici il discorso è analogo). Mi sono messo lì a leggerlo e c’era un miracolo dietro l’altro, un segno dietro l’altro. Tutto sembrava ruotare attorno a una domanda: Gesù è Dio o non è Dio? E a favore della tesi di essere Dio, Gesù continuava a compiere miracoli e lasciare segni e pronunciare parole pregne di quella soprannaturalità che secondo Carlo Acutis ai nostri giorni manca. Pensando a me e ai cattolici in generale e vedendo il Cristo che emergeva pagina dopo pagina dal Vangelo di Giovanni, ho percepito un abisso e mi sono domandato se ci siano ancora punti in comune.

Sì, estremizzo, ma mi sento come gli abitanti di Nazaret, in mezzo ai quali Gesù era bloccato perché non gli credevano. Non avevano fede in lui. Perché se Cristo è vivo, allora Cristo agisce. Ma Cristo può agire tramite la nostra fede, è lui stesso a insegnarcelo. Quindi a frenarlo, quasi a paralizzarlo, siamo noi. Ripeto: io per primo.

Ho la sensazione che vogliamo così tanto fare il “bene” con le nostre forze da impedire a Dio di mettere in campo le sue. Concentrandoci troppo su di noi, perdiamo di vista Dio.

Dov’è la fede convinta di averle già ottenute, le cose che chiede? È un’indicazione del Vangelo, non m’invento nulla. Quella fede è rarissima. Dire “sia fatta la tua volontà”, per me, in automatico, ormai sottintende che quello che chiedo non verrà esaudito. In pratica prego con la sicurezza che la volontà di Dio sia un’altra. Ma che ne so io qual è la volontà di Dio?

I Vangeli sono zeppi di segni, miracoli, liberazioni, ma noi ce ne vergogniamo o li interpretiamo come leggende, simboli, o ci ostiniamo a non volerne avere bisogno. Viviamo come se padre Pio fosse vissuto mille anni fa, come se Fatima e Lourdes fossero eventi medievali, come se a Medjugorje o in alcune realtà ecclesiali vive, con sacerdoti santi, non accadesse mai nulla. E invece qualcosa accade. Quello che accadeva quando Gesù era sulla terra. Ma come mai solo lì? Perché abbiamo perso la fede. Perché per falsa umiltà – che è superbia – non lasciamo agire Dio. Non chiediamo, non preghiamo, non ringraziamo, non lodiamo e se lo facciamo è più che altro ginnastica mentale o facciale.

Dove sono i segni che accompagnano chi annuncia il Vangelo? Ha mentito, Gesù? Ci inganna o è Dio? Questo non vuol dire esigere che ogni preghiera all’istante venga esaudita. Ma siamo all’estremo opposto. Non parlo di amore, di carità, parlo proprio di fede. Sul piano della fede – che è quello iniziale: Abramo, per fede, cos’è arrivato a fare? – siamo meno di zero. Almeno qui in Occidente, nella tomba della fede, Occidente che invece ne è stato la culla, strabordante di santi folli e ridicoli che hanno permesso a Dio di agire in maniera inimmaginabile.

by Serena Di (@radicalchicpentita), autrice di Confessioni di una Radical Chic pentita

Carissimi, come sapete ho scritto un libro (ho solo spammato post per una settimana) e adesso che è stato pubblicato, come tutti gli scrittori bohemien, gli artisti e Lady Gaga posso raccontarvi le mie sciagure passate (ampiamente trattate nel libro tra l’altro). 

Si fa per fidelizzare il pubblico, per farlo empatizzare «poverina anche lei aveva i brufolozzi sul mento durante il pre ciclo» e soprattutto perché è di gran moda.

Vince su tutti chi parla di bullismo, battute sul peso, sul modo di vestire, di comportarsi, di parlare, la lista è lunga e non risparmia niente e nessuno, eppure a guardare tv, social e giornali sembra che ne siano vittime solo alcune categorie per cui la parola bullismo è sempre valida, mentre per altre sembra normale prassi, come se non fossimo tutti fatti di sangue, cuore, sentimenti e cistifellea. Evidentemente la cistifellea di qualcuno vale più di quella di altri. Cosa succede infatti quando la vittima di bullismo è un cattolico, nel paese che viene ancora da molti (erroneamente) considerato il più cattolico al mondo?

Succede un bel niente, oggi come vent’anni fa quando la vittima di bullismo sono stata io e non conoscevo la parola bullismo. C’erano i “bulletti”, che secondo la leggenda erano rigorosamente solo maschi e per definizione venivano da famiglie povere e abbrutite che mangiavano il dessert con il cucchiaino da the (datemi i sali). 

Questi “bulletti” te li immaginavi sempre in sella a una Harley-Davidson (anche se avevano cinque anni), il chiodo d’ordinanza, un coltellino svizzero ben in vista e tra i capelli la stessa brillantina che usava John Travolta in Grease (che, ricordiamolo, secondo i canoni odierni è un film sessista e misogino ed è deplorevole anche solo nominarlo). 

I bulletti se ne stavano sugli spalti dello stadio del liceo, loro habitat naturale, cantavano dal tramonto all’alba Summer Nights pronti ad assalire in massa, come corvacci, la loro preda, perché si sa i bulletti agiscono sempre in gruppo. Le mamme lo ripetevano in continuazione «non te la prendere, i bulletti agiscono sempre in branco ma presi singolarmente sono deboli e fragili».

E così con queste raccomandazioni mi apprestavo a iniziare le scuole medie come una povera, ingenua, Sandy Olsson (mia madre mi vestiva pure come lei). La mia scuola non aveva lo stadio, la palestra era inagibile per la maggior parte del tempo e io sembravo al sicuro dai bulletti, eppure un giorno “il bullismo”, questa entità astratta, colpì anche me. 

Non ero stata presa di mira perché mi vestivo come Nonna Papera, né per l’aspetto paffuto e i brufoli, o, almeno, non solo. Ero stata presa di mira perché agganciato a un laccio dello zaino tenevo un rosario. 

Questo evento, con le sue conseguenze, ha segnato profondamente il mio rapporto con la fede durate gli anni a venire. 

Nel mio caso la capo bulla era una donna, un’adulta, la mia professoressa di lettere e il branco di ossequiosi bulletti non era composto da ragazzini provenienti da famiglie svantaggiate, ma da ricchi rampolli di provincia. Quelli che si vestivano come i vj di MTV, che bevevano e fumavano in aula, che davano fuoco al registro di classe per le troppe note accumulate, che si riempivano di piercing e tatuaggi a dodici anni, che perseguitavano e deridevano in massa i compagni più deboli (e meno benestanti) che non sapevano neanche cosa fosse MTV. 

I tipi giusti, insomma. Contro di loro non avevo speranze e soprattutto non le avevo contro la professoressa Lazoppis che non perdeva occasione per ricordarmi che la religione era l’oppio dei popoli e che «la cultura è solo di sinistra» (ma anche io venivo da una famiglia di sinistra). Loro erano quelli a cui si dava sempre ragione, persino se erano crudeli, prepotenti, volgari, ipocriti, bugiardi e culturalmente inadeguati. Negli anni ho imparato a riconoscerli, studiarli e perdonarli, a loro ho dedicato intere pagine di Confessioni di una Radical Chic pentita.

Il tempo è passato ma ben poco è cambiato. Per rivedere i miei ex compagni di classe oggi basta sintonizzarsi su qualche programma a caso, visitare una di quelle pagine satiriche da milioni di follower dove si plaude con disinvoltura alle bestemmie e dove donne e ragazze cattoliche, giornaliste, madri e mogli vengono messe alla gogna tra oscenità e ogni tipo di bruttura augurata pubblicamente a loro, ai loro mariti e ai loro figli. Il tutto nell’indifferenza generale, perché «nel 2021 stiamo ancora a difendere quelle retrograde donnine di Chiesa?».

Appunto, siamo nel 2021, abbiamo trovato un vaccino per il COVID19 ma non quello per la fesseria, e noi dopotutto continuiamo a rimanere il paese più cattolico al mondo (come no).

by Giuseppe Signorin

La Madonna appare ai bambini perché i bambini sono più santi, più forti, più belli, più ribelli. I bambini hanno coraggio, hanno un cuore grande, sono intelligenti, apprendono tutto, subito. La Madonna appare ai bambini e non fa proposte al ribasso: chiede tanto ai bambini perché i bambini hanno tanto da dare. E sono contenti di dare, perché dare è meglio che ricevere. Noi tendiamo invece a proporre il meno possibile, sul piano spirituale, ai più piccoli.

Tralasciando i bambini – a quel livello solo la Madonna (ma non è vero, i sacerdoti sono alter Christus) – e passando ai quindicenni, i diciottenni, ma anche i ventenni, i venticinquenni, se gli si facesse una proposta radicale, questi nel giro di tre mesi ti cambiano il paese. A quell’età si ha l’energia di fare cose allucinanti, spesso in senso negativo. Io mi svegliavo in luoghi di cui nemmeno ricordavo l’esistenza, e partivo per altri viaggi, altre mete, senza stancarmi mai. Perché ero motivato, volevo divertirmi.

A quell’età, se proponi preghiera abbondante, rinunce, letture, opere, i ragazzi li riempi e loro ti cambiano il pianeta. Ma sul serio, non solo con la raccolta differenziata. Tre diciottenni che decidono di digiunare, pregare, leggere le Scritture, coltivare una vita spirituale intensa… ne bastano tre per trascinare fuori dal vuoto metà dei loro coetanei. Il Vangelo è questo, dodici che prendono (anzi: vengono presi), partono e sconvolgono la storia.

A diciotto anni non sei giovane, sei fuoco. Chiamare i diciottenni o i ventenni “giovani” non è corretto, non dà l’idea. A quell’età, anche prima, si può essere Carlo Acutis, Pier Giorgio Frassati, Gabriele dell’Addolorata, Teresa di Lisieux, Giovanna d’Arco. Gente di quell’età è fuoco, dinamite, e loro nemmeno lo sanno, perché gli si propone una goccia di vino buono in un litro di acqua stagnante. Fa schifo. Come fai a non scegliere un’altra strada e iniziare a drogarti o trasformarti in una sardina se ti propongono una goccia di vino buono in un litro di acqua stagnante? “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!” ( Gv 15,3). Questa è la voce di Cristo.

Il rapporto con Dio nella preghiera e nel dialogo interiore non è solo per rilassarsi nella propria cameretta e avere qualche attimo di comfort, ma per incendiarsi. Ma per incendiarsi bisogna dire e trasmettere la verità, e cioè che la fede muove le montagne, non è un fatto privato che è meglio di niente. Dio non è qualcosa di “carino”. Dio è tutto e con Dio un gruppetto di ventenni che decide di afferrare una piccola fionda e munirsi di qualche sasso può far fuori Golia e trasformare il mondo non solo dentro di sé, anche attorno. Può fermare o allontanare le guerre.

L’umiltà deve andare di pari passo con la magnanimità, con un animo grande, spalancato all’unisono con altri. Se no con la scusa di una falsa umiltà trasformiamo intere generazioni in generazioni perdute, o, peggio ancora, mediocri.

Serena Di è una ragazza italiana che al momento si trova a Boston con il marito e una piccola e vivace bimba, ma per oltre dieci anni si è divisa tra studi televisivi e radiofonici, redazioni di quotidiani e riviste, agenzie pubblicitarie, set cinematografici, sottoscala, salotti, open space, brainstorming e interminabili file agli aperisushi. È appena uscito nella collana UOMOVIVO il suo “Confessioni di una Radical Chic pentita”, un resoconto dettagliato e tragicomico di quegli anni, ma anche una storia d’amore e di speranza, un viaggio che parte con la ricerca delle luci della ribalta e arriva fino all’incontro con Dio. Oppure, per dirla con Costanza Miriano nella prefazione: “un concentrato di intuizioni fulminanti sulla questione femminile e sulla ancora più importante questione centrale, la ritenzione idrica”.

Ti definisci una “Radical Chic pentita” (su Instagram: @radicalchicpentita) e poi c’è questo Serena Di, un po’ corto come cognome… a cosa è dovuta questa scelta?
Non sono la cugina di Melissa P., se è questo che intendi. Serena è il mio vero nome, Di è l’iniziale del mio cognome e di quello di mio marito. Quando ho iniziato a scrivere delle mie esperienze, della me del passato e di una certa spocchia che mi portavo dietro, del pentimento e del ritorno alla fede, ho avvertito la necessità di rappresentarmi come una persona diversa, che non vuol dire perfetta, ma nuova, perché alla fine l’incontro con Dio chiede questo alle nostre vite, di trasformarsi. Il nome vuole simboleggiare questa rinascita e gioca un po’ sul doppio senso di appartenenza. Sussurriamo spesso con sospetto “figlio di”, “parente di”, e così via, ma in questo “Di” c’è anche un desiderio di appartenenza a Dio. Nessuno pseudonimo o bisogno di anonimato, quindi, piuttosto una dichiarazione di intenti.

Una parte del libro descrive alla perfezione chi sono i Radical Chic, ma soprattutto spiega che bisogna volergli bene.
Certo, ed è il messaggio a cui tengo di più. Viviamo in un’epoca di divisioni, i media e i social media sono intrisi di parole d’odio e l’ultima cosa che volevo era rappresentare l’umanità attraverso fazioni opposte. Non sono un censore, il libro non è un pamphlet contro qualcuno, né l’ho scritto per giudicare qualcuno. Non ho la pretesa di semplificare la complessità della vita in credenti buoni e non-credenti cattivi, come ai tempi era stato insegnato a me: credenti stupidi e ignoranti, non-credenti intelligenti e colti. Al di là delle ironie (e non sarcasmo) ho rispolverato l’antica, e ormai banale, etichetta coniata dallo scrittore Tom Wolfe, per descrivere il mio atteggiamento nei confronti della fede, allo scopo di promuovere un invito alla fraternità e ricordare al lettore che chi ama Dio non ha nemici.

A proposito di quello che ti è stato insegnato, le scuole che hai frequentato – ed è un’esperienza comune a molti – sembra che ti abbiano in qualche modo “indottrinata”.
L’indottrinamento è una pratica odiosa e triste, a sentire la parola pensiamo subito a quello religioso che quando viene messo in atto è il peggiore di tutti. Nessuno di noi vorrebbe essere amato a forza, perché vorrebbe esserlo Dio? Ma c’è un altro tipo di indottrinamento, più sottile e come hai detto molto comune, che vuole far passare il messaggio che la fede sia un rimedio per gente senza speranza, una pratica idiota, utile al massimo per combattere ansia e depressione, una panacea per stressati, un oppio dei popoli e i fedeli un ammasso di ebeti, di sfigati, di retrogradi quando va bene. Questo è il tipo di indottrinamento che ho subito, in principio da una professoressa delle scuole medie che ci ripeteva continuamente che la cultura era solo di sinistra e la religione una consuetudine oscurantista. Nonostante fossi cresciuta in una famiglia di insegnati con idee di sinistra i miei genitori non si erano mai sognati di esprimersi in quel modo, né con me né con i loro alunni, e questo mi ha turbata. Ma intendiamoci, non è a lei che voglio dare la colpa per il mio allontanamento dalla fede, non è stata che una goccia nel mare e alla fine Dio ci lascia liberi di seguire la strada che più ci piace, anche quella che va nella direzione opposta alla sua.

Hai detto che questa professoressa non è stata che una goccia nel mare. Hai incontrato molti altri che la pensavano come lei?
Basta leggere i giornali, guardare la tv, fare un giro sui social, controllare pagine satiriche da milioni di follower e seguire i personaggi “giusti” per rendersi conto che c’è un enorme problema di comunicazione e di percezione della fede. Io poi che ho lavorato per anni nel mondo dello spettacolo e dello showbiz posso confermare che c’è un diffuso pregiudizio verso i credenti che fanno parte di questo ambiente. Da giovane studentessa di cinema e fotografia ho incontrato, tra i tanti, il compianto fotografo di moda Giovanni Gastel, e mi sono da subito innamorata dei suoi lavori. Non sapevo fosse credente ma penso che se lo avessi saputo all’epoca, ideologizzata com’ero, probabilmente avrei apprezzato meno le sue opere. Ho letto recentemente una vecchia intervista che ha rilasciato alla Stampa qualche anno fa dove senza imbarazzi, parlando di una grazia ricevuta da Padre Pio, ha affermato: «L’intellighenzia, fra cui ho tanti amici, considera una ingenuità l’essere religiosi, dimenticando montagne di pensiero cristiano cattolico». Le sue parole riassumono tutto.

E anche tu consideravi la fede un’ingenuità, fin quando non hai incontrato il principe azzurro, o meglio il “prince charming” perché è americano.
Ebbene sì, non aveva il cavallo ma una Toyota e non distingueva la differenza tra un radicchio e un cavolo rosso. Questo ragazzo, che come me lavorava nel mondo dello showbiz, ma dall’altra parte dell’oceano, e non si vergognava della propria fede ma sopportava e sorrideva alle fatiche della vita con la decina al polso, ha messo per primo scompiglio nelle mie certezze, pian piano, esclusivamente con il suo esempio, senza mai indottrinarmi o forzarmi a pregare o andare a Messa.

Oltre alla storia d’amore (e di verdure…) con tuo marito, emerge un po’ alla volta la storia d’amore con Dio, dal rosario che ti aveva regalato la nonna alla conversione. Ci anticipi qualcosina?
Scrivendo mi sono resa conto che la storia del mio rapporto con la fede era anche e soprattutto una storia familiare, iniziata con mia nonna Elvira che mi aveva insegnato la preghiera all’angelo custode e mi aveva regalato il primo rosario. Per anni non mi sono mai sognata di pregarlo. Volevo essere libera eppure ero ingabbiata in un solido dogmatismo, fortemente ideologizzato, avevo tutto ma nulla era mai abbastanza, ero focalizzata sulla celebrazione continua del sé, ossessionata dalla competizione smodata, dai primi posti ma a fine giornata rimavo da sola con il mio senso di vuoto. In un mondo che crea fenomeni nuovi ogni giorno e dove il genio del mercoledì diventa il cretino del venerdì, come diceva anche Gastel, chi si convince che il gioco è la vita ne finisce stritolato.

Ci dici qualcosa di te oggi?
Non sono certo diventata una santa. Sono una donna, una ragazza come tante, una moglie, una madre che lavora, che coltiva i suoi sogni e cerca di far stare tutto insieme a fine giornata, spesso non riuscendoci. Come il resto del mondo in questo momento soffro per la pandemia e a giudicare dalla mia ricrescita anche per la chiusura dei parrucchieri, ma nonostante dei giorni sia difficile rivolgersi a Dio continuo a cercare il suo volto.

Cos’è davvero Radical oggi?
Avere fede in un mondo che l’ha completamente smarrita. Se ci pensi è un pensiero rivoluzionario, ci vuole una buona dose di follia per essere credenti oggi, e aggiungerei anche uno spirito da bambini, bisogna farsi piccoli in un mondo che ci vuole sempre grandi e arroganti.

Trovate “Confessioni di una Radical Chic pentita” in formato cartaceo e ebook sul sito di Berica Editrice, Amazon (i tempi di consegna sono molto più brevi di quelli indicati) e nei principali store online, oppure ordinandolo in libreria.

by Giovanni Biolo, autore del bestseller internazionale “DentoTeologia. Paragoni fra denti e fede

Giorni fa un mio caro amico mi scrive: “Giovanni, i miei figli vanno matti per i supereroi. Perché non scrivi un racconto per bambini sui superpoteri di Gesù? Se lo fai ti offro un’ottima cena di pesce”. Ok, l’ultima frase l’ho aggiunta io, ma sono sicuro che lo pensavi, Michel. Però mi dispiace, non posso cogliere la proposta: uno perché ipotizzo che libri così esistano già, secondo perché un DentoTeologo non si compra con una cena di pesce… ne servono almeno due! Scriverò invece un articolo opposto… sul perché Gesù non aveva superpoteri. O meglio: i suoi superpoteri non sono quelli a cui subito si pensa.

“Ma come! Gesù era addirittura più potente dei supereroi! Gesù camminava sulle acque più di Aquaman! Trasformava l’acqua in vino senza gli esperimenti alchemici di Gargamella che voleva mutare piombo e Puffi in oro! Moltiplicava pani e pesci senza bisogno dei poteri mistici tibetani di Doctor Strange! Faceva risorgere i morti meglio della Pietra della Resurrezione di Harry Potter!“.

Vero… infatti, se chiedi di elencarti i gesti compiuti in vita da Gesù al primo che incontri per strada (all’università il mio prof. di Medicina Interna usava l’espressione: “Se lo chiedi al classico avventore del Bar Sport”), inizierà subito a farti una lista dei suoi miracoli più famosi. Ma se ti dicessi che i veri miracoli, i veri poteri, Gesù li ha compiuti nell’ordinarietà? Se ti dicessi che le azioni più importanti Cristo le ha eseguite facendo sembrare tutto… normale?

Noi siamo propensi a pensare a Dio solo in maniera straordinaria: un Dio adulto tutto muscoloso che scende di giorno dal cielo tra tuoni e fulmini meglio di Thor (non a caso Zeus, un dio creato dagli uomini, l’avevano immaginato più o meno così), che spara raggi laser dalle mani come IronMan, feroce come il verde Hulk. Invece il Signore è arrivato nell’ordinario, di notte, come un bimbo in un grembo materno, fragile… normale. Forse aveva finito i soldi per gli effetti speciali? No, questo ci rivela un suo potere grandissimo: l’umiltà di un Dio che si fa piccolo piccolo per permetterci di conoscerlo meglio, entrare in relazione con Lui, donando dignità regale all’essere umano, a partire dall’indifeso bimbo nel pancione della mamma, che noi definiamo “non ancora nato”.

Gesù ha scelto di nascere, ma anche di morire. Tutti noi moriamo, è normale, ma Gesù ha scelto di morire per noi. Gesù avrebbe sicuramente potuto fare il miracolo di scendere giù dalla croce volando, mostrando che i chiodi non potevano niente contro il suo corpo di adamantio come Wolverine, evitando così la morte. Ma senza quella morte ignominiosa sulla croce, prendendo su di sé i nostri peccati, non ci avrebbe aperto le porte del Paradiso!

Non morire mai o morire per salvare altri (come il leone Aslan che muore per salvare Edmund nelle Cronache di Narnia)? Qual è il miracolo più grande? Morire per un ingrato, questo è il vero super potere! Perché il miracolo è sì un segno grandioso, ma è di rimando a un significato più profondo, non una sfavillante magia fine a se stessa. Deve servirci a conoscere meglio Dio, non semplicemente a esaltarne i poteri. Addirittura una volta ho sentito un’omelia in cui il sacerdote diceva: “Gesù fa i miracoli… controvoglia!”. Perché il miracolo può quasi sviare l’attenzione, a volte, impedendoci di vedere che la vera potenza di Dio è il suo essere misericordioso nonostante tutto, nonostante noi e le nostre continue e schifose infedeltà.

Chiediamoci, poi, cosa è più utile per noi, cosa ci aiuta a raggiungere la nostra felicità? Sapere che Gesù camminava sulle acque o renderci conto che perdonava sempre, piangeva la morte di un amico e chiedeva anche lui aiuto per fare la volontà del Padre? Gesù è venuto per lasciarci una via di salvezza, una verità sicura, una vita ben spesa.

Mi avvio alla fine mettendo in risalto uno dei superpoteri di Gesù più forti e forse meno conosciuto. Neanche al Bar Sport lo conoscono. È la sua vita nascosta nei primi trent’anni di vita. Un Dio che non solo si fa bambino come noi, ma lavora le sue otto ore minimo al giorno di turno in falegnameria! In un paesino di provincia, imparando da Giuseppe (lui sì, un supereroe umano!) un lavoro manuale, dalla modesta paga, ascoltando le lamentele dei clienti più insopportabili, venendo incontro alle possibilità delle persone meno abbienti, mettendoci la faccia se magari un tavolo non veniva fuori come il cliente voleva. E tutto senza una bacchetta magica di Sambuco… no cari miei! A mio modesto parere dentoteologico: Gesù le sue otto ore se le sudava!

E tutto questo a cosa serve, mi direte? A insegnarci una via di santificazione concreta, nascosta e alla portata di tutti… la santificazione del lavoro.

Concludo con una frase di san Josemaría Escrivà: “Non vi è altra strada, figli miei: o sappiamo trovare il Signore nella nostra vita ordinaria, o non lo troveremo mai”.

Magari non mi sono meritato una cena di pesce, Michel, ma quale amico, se gli chiedi un pesce, ti darà invece una serpe? Ora, se non un pesce, almeno uno spritz!

by Serena Di (@radicalchicpentita), la nostra inviata da Boston (di cui è imminente l’uscita del suo primo libro “Confessioni di una Radical Chic pentita”)

Rassegniamoci, l’8 marzo non è più di moda. 

Non era più di moda dieci anni fa, quando i miei colleghi machisti lo definivano «un giorno per vecchie di paese che vanno a mangiare la pizza e guardare lo spogliarello», e incredibilmente non lo era neanche per le mie colleghe femministe che lo liquidavano come «un giorno per vecchie di paese e basta» (ricordiamo che le vecchie di paese tornano di moda secondo il gusto degli stilisti, quando le chiamano “modelle over” e mettono loro in mano una borsa a sei zeri). Le mimose poi guai a chi solo si azzarda a regalarle, non sono più di moda neanche quelle (fiori alle donne, ma siamo matti? Roba da retrogradi, medievali, analfabeti funzionali, Festival di Sanremo). 

Insomma l’8 marzo lentamente scompare, sabotato dalle ottimiste che ripetono che «ormai la festa delle donne è tutti i giorni» e dalle pessimiste che chiosano: «non c’è proprio niente da celebrare».

Delle donne oggi sembra si possa parlare solo attraverso categorie a compartimenti stagni: o super top manager, presidentesse dell’Impero galattico con le tasche imbottite di quote rosa e prime pagine sulle copertine patinate, o povere vittime silenti, tirate spesso in ballo dalle prime per farne la bandiera di questo o quel messaggio politico. E invece queste ultime è sempre bene ricordarle, a prescindere dalle bandiere, dalle ricorrenze, dai ranghi. Dalla Nadia di Rocco e i suoi fratelli (che si chiamava Paola Del Bono, e come Nadia era una prostituta uccisa all’Idroscalo di Milano) alla marchesa Maria Giordani Catalano Gonzaga a Clara Ceccarelli, che meno di un mese fa, e prima di essere accoltellata dall’ex compagno mentre lavorava nel suo negozio a Genova, si era pagata il funerale, prevedendo la sua atroce fine.

Umiliate, picchiate, spesso violentate, ammazzate, dimenticate, la morte le/ci accomuna, non ha rango, né età, né religione. A ricordarlo è stato anche Papa Francesco, nel suo viaggio in Iraq, citando le sofferenze del popolo yazida e soprattutto le sofferenze ma anche la forza delle donne, alla vigilia dell’8 marzo. La loro portavoce è Nadia Murad, Nobel per la Pace nel 2018, prigioniera e vittima delle violenze dell’Isis, che in una lettera aperta, rivolta al Pontefice, ha chiesto di intercedere a tutela delle minoranze, non solo quella cristiana ormai ridotta, in Iraq, da un milione a circa trecentomila fedeli. Le donne yazide sono ora ufficialmente riconosciute come vittime di genocidio da una legge varata dal parlamento iracheno il 6 marzo, e che riguarda: «ogni donna oggetto di rapimento, riduzione in schiavitù sessuale, venduta, separata dai genitori, costretta a cambiare religione, al matrimonio forzato, a gravidanza e aborto forzato, danneggiata fisicamente o mentalmente dal Daesh dal 3 agosto 2014». In molte hanno dato alla luce i figli di quelle violenze, donne, madri che si levano senza rabbia dalla schiavitù e Francesco le ha ringraziate: «Le madri consolano, confortano, danno vita. E vorrei dire grazie di cuore a tutte le madri e le donne di questo Paese, donne coraggiose che continuano a donare vita nonostante i soprusi e le ferite. Che le donne siano rispettate e tutelate! Che vengano loro date attenzione e opportunità!». 

Nella terra martoriata dalla guerra, culla di civiltà, religioni, confessioni, dove la cristianità trae origine dalla predicazione di San Tommaso, l’apostolo scettico che toccò con mano le ferite del Signore, e dove tutti i martiri risplendono insieme, stelle nello stesso cielo, il futuro riparte dalle donne. 

Donne la cui missione viene troppo spesso banalizzata. A tal proposito il Papa aveva già espresso il proprio parere: «Quante volte il corpo della donna viene sacrificato sugli altari profani della pubblicità, del guadagno, della pornografia, sfruttato come superficie da usare. Va liberato dal consumismo, va rispettato e onorato; è la carne più nobile del mondo, ha concepito e dato alla luce l’Amore che ci ha salvati!». 

Oggi di questo non si parlerà, si parlerà dell’intervista di Oprah ad Harry e Meghan Markle, dei residui del Festival e qua e là sbucherà sulle bacheche la faccia minacciosa di Rosie the Riveter che ci dice che ce la possiamo fare, come se la vita fosse un’eterna guerra e le donne figurine sbiadite su poster motivazionali. Mio padre mi invierà galantemente la foto del mazzo di mimose che anche a distanza compra per me ogni anno e io e mio marito, che dice che le mimose qui non si trovano facilmente, prenderemo dei fiori per nostra figlia, perché questo 8 marzo e quelli a venire, continui a celebrare le donne, testimoni di una speranza che non muore.

by il nostro inviato da Sanremo Giovanni Biolo, autore del bestseller internazionale “DentoTeologia. Paragoni fra denti e fede

J’accuse…! Iniziava così un celebre editoriale di Émile Zola e quel suo “Io accuso” è diventata una delle formule di denuncia sociale più famose. Ma forse è meglio dire… Je m’accuse! Perché, lo ammetto, mi accuso… ho guardato Sanremo! Ero curioso di scoprire qualche nuova canzone, un po’ indie come piace a me, e poi nel pomeriggio avevo sentito alla radio di una polemica lanciata da alcuni cantanti… perché il mazzo di fiori di Sanremo viene consegnato solo alle donne?

Nell’arco della serata ho cercato conferme e in effetti ho notato che qualche maschietto ha ritirato il mazzo di fiori dicendo: “Questa volta i fiori li prendo io”. Il tutto con una nota di orgoglio polemico e una punta di uguaglianza di genere q.b., quanto basta… come il sale (e stanno veramente pensando di dare il mazzo di fiori a tutti, maschi e femmine).

Mia moglie già dormiva, per cui non avevo nessuno con cui condividere una domanda titanica: “Ma questa è vera uguaglianza?”. Più che altro, cosa avrei fatto io se fossi stato un cantante sul palco di Sanremo?

È partito il film: mi sono visto subito con un abito elegante molto costoso (mia moglie mi ha spiegato che gli abiti a Sanremo te li danno gratis), il microfono in mano, tutto agitato e sudato per avere appena cantato il mio pezzo, e Amadeus che si avvicina e mi consegna un bel mazzo di fiori… allora io, con un accento veneto impossibile da nascondere: “Grazie Ama, bellissimi, questi li do a mia moglie, ma… non hai piuttosto una bottiglia di vino!?!”.

Perché l’idea di regalare qualcosa a tutti i cantanti ci sta, ma ha senso dare i fiori a tutti? È questa la vera “uguaglianza”? O meglio, è si uguaglianza, ma è equità? Cosa cambia? Avete presente la vignetta che circola su internet dei tre bambini di altezza diversa che cercano di guardare la partita di calcio al di là di una staccionata più alta di loro? Uguaglianza è dare a ciascuno la stessa cassa di legno per salirci sopra, ma così il ragazzo più basso non riesce ugualmente a vedere la partita. Equità è quando ciascuno ha la sua cassa di altezza diversa, così tutti e tre raggiungono l’altezza necessaria per superare la staccionata e vedersi la partita.

Perché, ammettiamolo… davvero a tutti gli uomini piace ricevere un mazzo di fiori? Sì, belli, sono i fiori di Sanremo, profumati… ma Sanremo avrà anche qualche vigneto, no? Che ne so… uno che produca un buon bianco, una bollicina.
Fiori alle cantanti donne e vino ai cantanti uomini, questa è la mia formula di equità sanremese! O almeno avere la possibilità di scelta!

“Eccolo il solito alcolista veneto!”, diranno gli astemi. Non preoccupatevi, ho previsto anche questo. Si può scegliere tra la bottiglia di vino o una confezione di ottimo succo di mela bio (tipo quello che produce Stefano, il mio futuro cognato… fine Pubblicità Progresso).

Tornando al Festival, in mezzo al delirio politically correct, ecco apparire un’ospite davvero interessante, una luce di speranza nell’oscurità achillelauresca… Beatrice Venezi, il direttore d’orchestra donna più giovane d’Europa! Talentuosa, bella e brava trentenne lucchese (dicono sia anche cattolica), che corregge così Amadeus, quando la presenta come “direttrice d’orchestra”, forse per continuare a cercare appoggi per la disputa sull’uguaglianza dei generi: “Io sono direttore d’orchestra. La posizione ha un nome preciso e nel mio caso è quello di direttore d’orchestra, non di direttrice. Mi assumo la responsabilità di questa cosa”.

92 minuti di applausi!

Concludo l’articolo come concluderei la mia performance di cantante sanremese: “Prendetemi per pazzo, sì, pazzo per Gesù (cit.), viva Sanremo, viva Dio, uno e trino! Niente fiori, ma opere di vino”

PS: so che molti di voi ora chiederanno a gran voce: “Va bene l’articolo catholically correct, DentoTeologo, ma ora dacci la tua classifica!”.

Eccovi accontentati:

  1. Ovviamente Bugo. Che cuore! Un eroe alla Italo Svevo.
  2. Coma_cose. Troppo belli i giochi di parole.
  3. Colapesce Dimartino. Troppo indie.
  4. Madame. Vicentina.
  5. Max Gazzè. Intramontabile.
  6. Willie Peyote. Bel testo rap.

Il Premio della Critica DentoTeologica: Orietta Berti. Forse l’unica voce propriamente detta. 

by Serena Di (@radicalchicpentita), la nostra inviata da Boston/Sanremo (di cui è imminente l’uscita del suo primo libro “Confessioni di una Radical Chic pentita”)

La vita non è un disco rotto, malgrado a qualcuno piaccia pensarla così. Ma chi la vuole davvero una vita così? Un eterno ritorno nicciano, una colonna sonora di cui conosci già tutte le tracce? Sono riflessioni da venerdì di quaresima, con la pandemia, la pioggia (almeno qui da me a Boston) e un Sanremo bruttino da guardare e ascoltare, che però mi tiene comunque incollata al divano tutto il pomeriggio (sia benedetta la mondovisione). 

Sarà l’euforia nel preparare il guacamole alle quattro di pomeriggio, il gruppo d’ascolto WhatsApp da cinquanta partecipanti che è impossibile abbandonare, il marito che fa la ola per Orietta Berti e che canta da due giorni «sono una figlia di Loredana», ma io a Sanremo quest’anno non posso proprio rinunciare. 

Anzi, ve lo dico, almeno una volta nella vita tutti dovrebbero provare l’ebrezza di guardare il Festival da oltreoceano, si è più nostalgici e belli lucidi, forse troppo per quattro ore di diretta, ma le orecchie sono ben sintonizzate sulla linea d’ascolto. E quando si è ben sintonizzati si riescono a percepire quelle meravigliose e inaspettate variazioni che rompono la monotonia (per gli scettici: dai, ragazzi, anche Spotify ha la riproduzione Shuffle, qualche sorpresa possiamo aspettarcela ogni tanto!). 

In quegli istanti ti accorgi che la vita non è un disco rotto e neanche Sanremo lo è. Quando meno te lo aspetti la musica cambia e parte la cover di una canzone che ho canticchiato più di vent’anni fa senza mai capirne il senso: Non è per sempre degli Afterhours, che ieri sera è stata cantata (ed egregiamente eseguita) da Lo Stato Sociale. Più di vent’anni fa a scuola facevo l’analisi del testo, in questo caso basta semplicemente leggerlo (ma quanto ci piace complicarcela questa vita a volte?):

Dici che i tuoi fiori
Si sono rovinati
Non hai abilità
Questa nazione è brutta
Ti fa sentire asciutta
Senza volontà
E gioca a fare Dio
Manipolando il tuo DNA
Così se vuoi cambiare
Invece resti uguale
Per l’eternità
Ma non c’è niente
Che sia per sempre
Perciò se è da un po’
Che stai così male
Il tuo diploma in fallimento
È una laurea per reagire
[…]
Tutto è efficacia
E razionalità
Niente può stupire
E non è certo il tempo
Quello che ti invecchia
E ti fa morire
Ma tu rifiuti di ascoltare
Ogni segnale che ti può cambiare
Perché ti fa paura
Quello che succederà
Se poi ti senti uguale

Chiaro, no? Sarà che io ho avuto un piccolo aiuto da casa e mi sembra tutto così semplice. L’aiuto è un libro che si chiama Niente di ciò che soffri andrà perduto, di Costanza Miriano. Anche quello, come Sanremo, non riesco a smettere di leggerlo. Questa la descrizione: “Arrivi a un punto della vita in cui ti sembra che i giochi siano fatti, che nulla possa più migliorare, che tutto sia andato storto, che non sia ciò che avevi sognato. Quello è il tuo matrimonio, quello è il tuo lavoro, quelli i tuoi figli, quella, insomma, è la tua realtà, e vorresti solo scappare via. E invece no. È proprio nel momento del dolore e della delusione più nera che avviene l’incontro più bello… proprio quando sembra di avere toccato il fondo, nasce l’occasione per conciliarsi con il proprio destino e amare senza condizioni”.

Non è un po’ quello che gli Afterhours e il bravo e bel Manuel Agnelli cantavano nel 1999? Tranquilli, non si tratta di un plagio. Come direbbero a Sanremo: “Nonostante alcune analogie nel ritornello, i consulenti hanno stabilito che non c’è plagio armonico, melodico e strutturale”. Il consulente ovviamente sono io e, sebbene siano su frequenze diverse trovo che la canzone e il libro abbiano gli stessi intenti. Ci ricordano entrambi quanto sia difficile rimanere se stessi in un mondo che scambia l’Io con Dio, in una società che vuole monopolizzare e manipolare i nostri pensieri e di come la vita (fortuna delle fortune) abbia una mortalità del 100%. E perciò proprio perché non è per sempre, chi la vuole tutta razionale e priva di stupore? La Miriano però fa una cosa in più, ci dà la soluzione e ci ricorda anche che c’è sempre la Pasqua dopo la Quaresima, c’è sempre la speranza oltre il buio della monotonia, c’è sempre Dio che ci aspetta e che non gioca con il nostro DNA, perciò non rifiutiamoci di ascoltare ogni segnale che ci può cambiare, meglio reagire finché siamo ancora in tempo.

(Oh, non è vero che dovevano prendere Costanza Miriano come giudice a X-Factor?!)