“La metafisica e i cartoon spiegati a mio figlio” di Angelo Mazzotta
Figlio mio, mi raccomando, mo’ che inizi le scuole medie, occhio a non farti influenzare da cattive compagnie… A scuola possono girare cose “strane” da cui è meglio tenersi alla larga… Ho capito, papà, ti riferisci alla “Drrrroga” (rafforzativo siculo)!!! Ne ho sentito parlare… ma non ne ho bisogno!
Bene, alla tua età io ero ancora un mocciosetto di un piccolo paesino sperduto del Salento, e la mia massima trasgressione era riuscire a “sballarmi” di cartoni animati nel pomeriggio… Ne vedavamo di ogni tipo, visto la presenza di tua zia e dei tuoi zii. Dopo si giocava fino a sera, anche con i ragazzini del vicinato, spesso imitando le gesta dei nostri eroi cartonati…
Alcune sigle, all’apparenza innocue, raccontavano di effetti psicotropi incredibilmente sottovalutati… Le avventure dei rispettivi protagonisti hanno destabilizzato non poco i nostri poveri e ancora fragili neuroni… Insomma, guardando ora il passato, mi rendo conto che molto di ciò che oggi è proibito, allora era del tutto legalizzato e largamente diffuso. Come “farmaci” dispensati ad orari prestabiliti, secondo rigide prescrizioni e con sigle simili a bugiardini…
A noi maschietti ci pensava un pescatore provetto dalle orecchie a sventola … “Amica tua/una canna fatta di magia”, evidente cenno alla modalità “goduriosa” di somministrazione. “e quell’amo una calamita/impossibile cambiare strada”, indicazione dell’effetto della dipendenza. “oh, Sampei/giramondo come i marinai/quanti mari vedrai”, elenco dei possibili effetti allucinogeni del viaggio. “Sampei, Sampei/e la barca va, la barca scivola/con te dietro ai sogni che fai”, evidenza di uno stadio definitivo in cui sono le allucinazioni a condurre.
Anche le femminucce erano ben servite, a dire il vero avevano più scelta. Posso ancora ricordare ben tre famose “eroine” che le hanno condotte ai confini della realtà. Per la verità un po’ tutti canticchiamo ancora le loro canzoni…
“Heidi, Heidi, ti sorridono i monti […] le caprette ti fanno ciao”, qui si leggono gli effetti (forse) indesiderati. “Neve, bianca sembra latte di Nuvola”, qui il principio attivo. “Heidi, Heidi, tutto appartiene a te”, la raccomandazione ad un consumo personale.
“Anna dai capelli rossi ha/due grammi di felicità”, la dose raccomandata. “chiusi dentro all’anima”, conservata nel posto giusto. “e al mondo vuol sorridere”, indicazione dell’effetto desiderato.
Ma una più di tutte, il cui bugiardino mente spudoratamente, è la vera “eroina” per eccellenza. Tanto pura quanto pericolosa per i guai che causa. Ti fa salire fin sulle vette dell’Olimpo e fa crescere il desiderio di sentirsi un dio tra gli dei. È lei: Pollon!
La sigla (qui) non accenna minimamente alla sostanza psicotropa, ma chi ha seguito le gesta di questa minuta combinaguai non può non ricordare una tale ammissione: “Sembra talco ma non è, serve a darti l’allegria! Se lo mangi o lo respiri ti dà subito l’allegria!”, canzoncina interpretata da Pollon in un ridicolo siparietto introduttivo, circondata da due curiosi orsi, prima di spacciarla con generosità (qui). La piccola figlia di Apollo, usa questa magica polverina per aiutare altri personaggi in difficoltà, per ridonare l’allegria persa. È una sorta di polvere del buon umore!
Lei va alla ricerca di chi ha bisogno di aiuto, imbattendosi nei protagonisti dei miti greci, ritoccati appositamente dagli autori in modo fantasioso e quasi sempre irriverente. Tutto sommato, la serie rappresentava per noi ragazzini degli anni 80 un modo divertente ed inusuale per approcciarsi con curiosità alla mitologia greca, non tanto digerita tra i banchi di scuola…
La nostra eroina è aiutata dall’inseparabile Eros, un brutto e alato cupido, con evidente ernia ombelicale.
Ciò che la spinge nel suo cammino di crescita è il desiderio di poter diventare a tutti gli effetti una grande dea. Il nonno Zeus ad ogni sua buona azione la ricompensa con una moneta che va a riempiere un piccolo salvadanaio a forma di trono. Questo crescerà proporzionalmente alla maturità della nipotina, fino a raggiungere una grandezza naturale.
All’inizio della storia, la beniamina di tutti gli dei è impacciata, oltremodo curiosa, ostinata a cantare pur essendo stonata. Questa sua esuberanza è causa di innumerevoli guai, invece di aiutare peggiora le situazioni in cui si va a cacciare, ma col tempo impara a comportarsi meglio. Ad aiutarla in questo c’è soprattutto la Dea delle dee, che la incoraggia, la consiglia, soccorrendola nei momenti difficili, una sorte di angelo custode o fata turchina. Le fa dono di un miracoloso fermacapelli col quale contattarla e compiere miracoli: il Miracolo Bon Bon. Un amuleto dai poteri magici che giunge proprio nel momento in cui la figlia di Apollo comincia a crescere interiormente.
Questa Dea, avvolta da un alone di grande solennità e mistero, è la chiave di lettura di tutta la serie, perché in verità è la Dea della Speranza! Solo la più piccina degli abitanti dell’Olimpo ed i piccoli telespettatori sanno della sua esistenza. Gli altri personaggi sembrano ignorarla. La speranza evidentemente è la virtù dei piccoli! I grandi, gli orgogliosi non la conoscono, non sanno cosa sia.
Nell’ultimo episodio Pollon libera tutti i mali contenuti nel vaso di Pandora rischiando di contagiare il mondo intero, ma trova la soluzione al problema nello stesso vaso, estraendo proprio la speranza!
A questo punto la Dea delle dee cederà il proprio posto a Pollon che finalmente diverrà la nuova Dea della Speranza e siederà sul trono.
Ecco il nocciolo di tutta la storia: la Speranza! La Speranza che dona il buon umore! La vera allegria! Una gioia che non viene mai meno, che può forse essere sotterrata dalle difficoltà che ogni tanto ci sovrastano, ma è sempre alla nostra portata, basta sbirciare sul fondo e se necessario scavare.
Ma Pollon dove la trova la speranza in polvere? Dobbiamo andare alla ricerca del suo pusher! Quello vero, quello che non fa male. Chi è e dove possiamo incrociarlo?
La droga, senza distinzioni, è un male. Un artificio inutile, utilizzato, molto spesso da giovani, nel tentativo di alleviare la sofferenza che attanaglia i cuori. Ragazzi lontani dalla ricerca di grandi obiettivi da realizzare nella vita, centrati su sé stessi, sui piccoli problemi dell’oggi: iPhone o Galaxy, questo è il problema! Hanno tutto e non desiderano più niente, vivono nell’ansia di perdere ciò che possiedono. Presto il paventato sequestro del cellulare che un genitore minaccia al proprio figlio potrebbe considerarsi istigazione al suicidio…
Tanti sono i giovani lasciati soli, strattonati da genitori in rotta di collisione, e che per questo sperimentano e interiorizzano la mancanza di fiducia nell’altro… Ragazzini i cui bisogni non sono mai maturati in desideri, che si spendono per il nulla e le cui gonadi caratteriali rimangono ipotrofiche. Chi non coltiva desideri non raccoglie speranza. Rimane fragile.
La droga peggiora solo la situazione. Rafforza la dipendenza al male, non libera. Amplifica bisogni irrefrenabili, rende ancor più schiavi e violenti. Il cervello è ridotto ad un colabrodo, il cuore rimane ingabbiato… Ti mette una palla al piede impedendoti di evadere veramente. È la risposta sbagliata ad una endemica carenza di speranza, dovuta ad una tendenziale abitudine alla disperazione che caratterizza in particolare l’uomo moderno e che potremmo definire “disperatitudine” (cit. Melvin Peabody, direttore di un noto penitenziario del Nevada al confine col Messico).
Un mal di vivere, un po’ come la nostalgia di Heidi e l’inadeguatezza di Anna dai capelli rossi.
Tutti i giorni corriamo il rischio abituarci alla tristezza, finanche alla disperazione! La cronaca nera ci terrorizza sempre più, le morti violente sembrano poterci raggiungere in ogni piazza, ad una crisi finanziaria pare seguirne sempre una peggiore, si lanciano missili come petardi… La speranza appare così più fragile, spenta, esaurita e, al contempo, sempre più necessaria, perché comprendiamo che riguarda il nostro futuro.
Molto spesso questa fragilità è fortemente legata al vissuto emotivo-affettivo, varia a seconda delle emozioni che ci attraversano repentinamente, senza autocontrollo, scevre da ogni discernimento.
Avvertiamo così l’impellente esigenza di un’àncora, di una speranza non vaga che ci trattenga, ci faccia riposare in luoghi sicuri nel bel mezzo della burrasca della nostra vita. Una speranza non velleitaria, che non faccia leva solo sulla nostra forza di volontà. Abbiamo bisogno di altro.
La parola “speranza” ha diversi significati, come degli strati di una stessa città il cui valore risiede proprio nella ricchezza storica preservata, nella memoria accumulata, nella sicurezza della persistenza di un senso nonostante le macerie.
Ad un primo livello, il più superficiale, troviamo proprio la speranza del vaso di pandora, che non è una virtù, ma un male. Il Vaso di Pandora è il Vaso dei Mali, e quindi è in parte un male essa stessa. Zeus creò la donna che Ermes chiamò Pandora, talentuosa quanto curiosa; le consegnarono un vaso chiuso, dove Zeus aveva rinchiuso tutti i mali del mondo, e la mandarono come dono a Epimeteo fratello di Prometeo (quello che rubò il fuoco agli dei per regalarlo agli uomini). Pandora aveva avuto l’ordine di non aprire mai il vaso, ma la curiosità è donna e così sollevò il grande coperchio lasciando fuggire il terribile contenuto; per il mondo si diffusero i malanni, la fatica, l’invidia ed ogni sorta di altro male. Quando si accorse di ciò che era successo, Pandora cercò di rimediare chiudendo il vaso: ma, alla fine, dentro vi rimase soltanto Elpis, la Speranza.
Per gli antichi greci la speranza è intesa come “Timor del futuro” ed è ambivalente: distoglie lo sguardo dell’uomo dal suo destino di sofferenza e morte e impedisce di vedere con chiarezza il futuro, la realtà e verità delle cose… Per San Paolo tale speranza è “vana”, una sorta di cortina di fumo, un oppiaceo ad uso e consumo di chi spera al massimo di vincere al superenalotto, di chi confida nella salvezza offerta dalla sorte, dalla cartomante o peggio ancora dallo stato.
Pollon va oltre questo tipo di speranza illusoria e deludente. È già ad un secondo strato della speranza, più profondo, quello in cui si palesa come virtù. Ha infatti l’atteggiamento spirituale e morale di chi nutre ragioni per sperare in un futuro prossimo migliore del presente, ed è in una chiassosa tensione perché quel “non ancora” diventi “già”. Coltiva desideri grandi la piccina e comprende che è chiamata in causa. Ha una vocazione che vale la pena realizzare.
C’è poi un terzo livello, quello in cui si fatica per migliorare il presente in cui vive. La virtù si rafforza perché viene esercita con impegno e disciplina. Pollon dona la propria allegra vivacità agli altri, è interessata, sempre più, al bene della propria comunità di dei e semidei. Ha compassione per gli abitanti della sua città, per lei sono un dono, occasione di crescita. Comprende che può realizzare il suo desiderio solo aiutando gli altri a realizzare i propri. Si diventa grandi insieme. La speranza ha un respiro comunitario. Nessuno impara a sperare da solo. Non è possibile. La speranza, per alimentarsi, ha bisogno necessariamente di un “corpo”, nel quale le varie membra si sostengono e si ravvivano a vicenda. Semina buon umore ovunque ed è causa di miglioramenti “sociali”, a piccoli passi e con fatica come sa fare lei. A sperare sono proprio coloro che sperimentano ogni giorno la prova, la precarietà e il proprio limite. Lei rimane ferma nell’affidamento alla Dea della Speranza, sapendo che, al di là della tristezza, dell’impotenza dinanzi a problemi irrisolvibili, l’ultima parola sarà la sua, e sarà una parola di pace, rassicurazione e misericordia. Pollon a volte sbaglia, ma si può rimproverare l’errore non voluto a chi è in uscita verso il prossimo? Questo tipo di speranza è contagiosa e come la sua polvere magica andrebbe fatta respirare e mangiata quotidianamente in famiglia, a lavoro, in parlamento, nei mercati. Un ottimo antidoto alla “disperatitudine” civile e sociale. Se vi risulta più comodo potete tralasciare il balletto introduttivo…
Vi è però un ulteriore e ancor più nobile livello di speranza, ad una profondità che si dilata magicamente verso inaspettate estensioni. È il punto in cui l’ascesi si ferma in attesa di un rapimento mistico. La lingua spagnola, come quella portoghese, usa una sola parola per dire “sperare” e “attendere”: esperar. C’è forse qualcosa di “esperar” nei misteriosi colloqui tra Pollon e la Dea delle dee. La piccola rimane in attesa di un cenno, di un intervento divino perché altro non può fare. È certa che non mancherà. Ed ecco che la Dea della Speranza sopraggiunge, in abbondanza, ridonandole nuove ragioni per sperare ancora e sempre più. La speranza come “virtù teologale” viene dall’Alto ed eccede rispetto a ogni merito.
Papa Francesco ci insegna che La speranza cristiana è l’attesa di qualcosa che già è stato compiuto [… ] Anche la nostra risurrezione e quella dei cari defunti, quindi, non è una cosa che potrà avvenire oppure no, ma è una realtà certa, in quanto radicata nell’evento della risurrezione di Cristo. Sperare quindi significa imparare a vivere nell’attesa. Imparare a vivere nell’attesa e trovare la vita. Quando una donna si accorge di essere incinta, ogni giorno impara a vivere nell’attesa di vedere lo sguardo di quel bambino che verrà. Così anche noi dobbiamo vivere e imparare da queste attese umane e vivere nell’attesa di guardare il Signore, di incontrare il Signore. Questo non è facile, ma si impara: vivere nell’attesa. Sperare significa e implica un cuore umile, un cuore povero. Solo un povero sa attendere. Chi è già pieno di sé e dei suoi averi, non sa riporre la propria fiducia in nessun altro se non in sé stesso.
Pollon riconosce che ciò che le viene trasmesso dalla Dea della Speranza è un dono “rivitalizzante”, il vero motore della sua allegria. Potremmo accostare in qualche modo questa Dea alla Vergine Maria. Lei che in mezzo alle tenebre della passione e della morte del suo Figlio continuò a credere e a sperare nella sua risurrezione, nella vittoria dell’amore di Dio, è per noi segno luminoso di consolazione e di sicura speranza. In Lei la speranza dei millenni è diventata realtà. Il futuro eterno di Dio le è germinato in grembo ed è divenuta madre della santa speranza. Dove c’è Lei c’è di sicuro lo Spirito Santo. È calamita umana delle grazie divine. La sua assunzione è immagine e inizio della Chiesa che dovrà avere il suo compimento nell’età futura. Lei è vita, dolcezza e speranza nostra.
Maria ci dona suo Figlio e ci ricorda che è risorto, è vivo fra noi e abita in ciascuno di noi. Insiste affinché lo seguiamo verso il Padre celeste, oltre la morte, fino alla Resurrezione! Gesù è nei nostri cuori ed è lì che occorre adorarlo. Scavando si arriva al centro dell’uomo, al suo cuore. Lì ha preso dimora il nostro Salvatore nel giorno del nostro Battesimo, e da lì continua a rinnovare noi e la nostra vita, ricolmandoci del suo amore e della pienezza dello Spirito. Possiamo rendere ragione della speranza che è in noi ricordando che la nostra speranza non è un concetto astratto, un sentimento ma una Persona che addirittura riposa nei nostri cuori: Gesù, vivo e presente, perché risorto!
Solo un Dio della speranza poteva crearci in questo modo, capaci di contenere ogni gioia e pace, capaci di riceverlo.
Pollon nel cammino di crescita attraversa i suoi deserti. La fatica di superare prove, tentazioni, illusioni e miraggi forgiano in lei una speranza forte, salda, sul modello della Dea della Speranza. Arriverà addirittura a prendere il suo posto, diventato dea della Speranza pure lei. “Ecco la stupenda realtà della speranza: anche noi confidando nel Signore possiamo diventare come Lui, la sua benedizione ci trasforma in suoi figli, che condividono la sua vita. La speranza in Dio ci fa entrare, per così dire, nel raggio d’azione del suo ricordo, della sua memoria che ci benedice e ci salva. E allora può sgorgare l’alleluia, la lode al Dio vivo e vero, che per noi è nato da Maria, è morto sulla croce ed è risorto nella gloria. E in questo Dio noi abbiamo speranza, e questo Dio – che non è un idolo – non delude mai” (Papa Francesco).
Gesù con la sua morte in Croce ha trasformato il nostro peccato in perdono, la nostra morte in risurrezione, la nostra paura in fiducia. Una tale speranza, così luminosa e ardente, non può non esprimersi anche all’esterno. Il cristiano, figlio mio, non vive fuori dal mondo, riconosce i segni del male, dell’egoismo e del peccato. “È solidale con chi soffre, con chi piange, con chi è emarginato, con chi si sente disperato[…]Però, nello stesso tempo, il cristiano ha imparato a leggere tutto questo con gli occhi della Pasqua, con gli occhi del Cristo Risorto. E allora sa che stiamo vivendo il tempo dell’attesa, il tempo di un anelito che va oltre il presente, il tempo del compimento. Nella speranza sappiamo che il Signore vuole risanare definitivamente con la sua misericordia i cuori feriti e umiliati e tutto ciò che l’uomo ha deturpato nella sua empietà, e che in questo modo Egli rigenera un mondo nuovo e una umanità nuova, finalmente riconciliati nel suo amore.” (Papa Francesco)
Che bello! L’esuberante bellezza dell’Amore che fa risorgere tende ad irradiarsi dal nostro cuore verso il prossimo col sorriso, l’ascolto, la tenerezza. Dovrebbe trasparire dolcemente verso gli altri, contagiare, attrarre. Frapporre ostacoli avvizzisce, demoralizza e ci ammala. Ricorda un santo triste, che non sorride, è un triste santo!
Giusto per non lagnarti, vado alle conclusioni. Abbiamo detto che il bisogno di speranza è un bisogno che, nel cuore dell’uomo, spesso rimane quasi intrappolato, frustrato, sepolto dalle macerie. Con Pollon oggi abbiamo scavato per scoprire quale speranza è quella più resistente e abbiamo trovato Gesù Risorto nel nostro cuore.
Ma se Gesù Risorto è la nostra speranza chi è che lo spaccia? Chi è il pusher di Pollon?
Come saprai il pusher si aggira con molta discrezione, frequenta le zone più buie, evitano di apparire, si muove senza dare nell’occhio ed intanto, “spinge”, per definizione (push = spingere), il mercato della droga, promuovendo e spacciando stupefacenti.
In tutta questa nostra storia, chi silenziosamente si nasconde nella parte più inaccessibile del nostro cuore, in quella zona dell’anima che è il nostro spirito, è proprio lo Spirito Santo. È Lui che mantiene vivi il gemito e l’attesa del nostro cuore. Vede per noi oltre le apparenze negative del presente e ci rivela già ora i cieli nuovi e la terra nuova che il Signore ha preparato per l’umanità. Lo Spirito è il vento che ci “spinge” in avanti, che ci mantiene in cammino, ci fa sentire pellegrini e forestieri.
È il vento raccolto dalla vela della speranza. La speranza lo raccoglie e lo trasforma in forza motrice che “spinge” la barca della nostra vita. È capace di farci addirittura “abbondare nella speranza”, cioè farci sperare “contro ogni speranza”, sperare quando viene meno ogni motivo umano di sperare.
È grazie a Lui che il Verbo si è fatto carne ed il mare contiene il cielo. È Lui che forma e trasforma!
Sempre Papa Francesco ci ricorda che Lo Spirito Santo non ci rende solo capaci di sperare, ma anche di essere seminatori di speranza, di essere anche noi – come Lui e grazie a Lui – dei “paracliti”, cioè consolatori e difensori dei fratelli, seminatori di speranza. Un cristiano può seminare amarezze, può seminare perplessità, e questo non è cristiano, e chi fa questo non è un buon cristiano. Semina speranza: semina olio di speranza, semina profumo di speranza e non aceto di amarezza e di dis-speranza. Il Beato cardinale Newman, in un suo discorso, diceva ai fedeli: «Istruiti dalla nostra stessa sofferenza, dal nostro stesso dolore, anzi, dai nostri stessi peccati, avremo la mente e il cuore esercitati ad ogni opera d’amore verso coloro che ne hanno bisogno. Saremo, a misura della nostra capacità, consolatori ad immagine del Paraclito – cioè dello Spirito Santo –, e in tutti i sensi che questa parola comporta: avvocati, assistenti, apportatori di conforto. Le nostre parole e i nostri consigli, il nostro modo di fare, la nostra voce, il nostro sguardo, saranno gentili e tranquillizzanti» (Parochial and plain Sermons, vol. V, Londra 1870, pp. 300s.). E sono soprattutto i poveri, gli esclusi, i non amati ad avere bisogno di qualcuno che si faccia per loro “paraclito”, cioè consolatore e difensore.
Il pusher di Pollon è lo Spirito Santo!
Come Pollon dovremmo tornare quindi a pregare, ad avere grandi desideri, a vedere l’altro come dono, a consolare e difendere il prossimo, a rimanere in attesa, a non confidare troppo nelle nostre capacità, a riconoscere i nostri limiti, ad affidarci a Maria, a seguire Cristo, a farci condurre dalla Spirito Santo e non smettere mai di “seminare”, “sprecare”, “spacciare” questa Speranza…
Una sana abitudine contro una malsana.
Pollonitudine contro disperatitudine!!!