Condividiamo l’articolo che ci ha mandato la nostra amica Rachele Bruschi, una che non le manda a dire 😉

Matrimonio francescano, che è? Se magna?!

No! Ma anche sì, ineffetti, è la cerimonia che tutti possono avere. Pure quelli squattrinati, o ricchissimi che vogliono sobrietà francescana, pure quelli che sono fidanzati da anni e si nascondono dietro la scusa “adesso non ci possiamo sposare, aspettiamo di sistemarci”. Ma poi che significa sistemarsi?!
Quand’è precisamente che ci si sistemerebbe? Chi è “sistemato”, dunque,starebbe a posto fino alla fine? Non rischia il posto di lavoro,non si ammala,non dovrà privarsi dell’abbonamento a Netflix o delle vacanze montanare..?!

Per carità, non vorrei criticare le scelte di nessuno – l’articolo è per di più rivolto a quei cristiani che rimandano scelte definitive – ma, inevitabilmente, da questo discorso qua i ragazzi (e anche i vecchiardi scapoloni) si sentono turbati, partono all’attacco dandoti dell’irresponsabile, di non stare coi piedi per terra… eccetera fino a illimitate banalità.

Praticamente in che gradino viene messo il vostro amore? Ha il primo posto?

Generalmente si assiste ad un fidanzamento che dura da svariati anni (“ci dobbiamo conoscere”, sacrosanto, ma quanto ce vo’? Devi trovare i punti segreti di pressione della scuola di Hokuto?), il grande passo viene via via nel tempo rimandato dopo la laurea, dopo il lavoro (quello fisso!!! “dobbiamo sistemarci!), dopo la convivenza (devono vedere se quel che hanno conosciuto dell’altro funziona, altrimenti “No grazie” o “Next please”, insomma), dopo la lezione di arti marziali, ovviamente (per via dei punti di pressione), dopo… dopo! Viene dopo!

“Il matrimonio costa”, ma quando mai… sposarsi non costa nulla!
È la mega festona coi fuochi d’artificio ad essere un po’ eccessiva (ed egocentrica) eventualmente. Davvero l’amore sponsale, l’unione in Cristo, due che diventano uno… tutto ciò è meno urgente, meno importante, tanto da essere eternamente rimandato, della festa?

Attenzione che a forza di rimandare, conoscersi, sistemarsi, questo “amore” non inizia vacillare, a viziarsi, ammuffirsi, fino alla sua tragica e liberante fine. Chi è l’irresponsabile? Direte voi “allora questo non era amore! Meglio così”, giusto, non lo era e meglio così in effetti (col senno di poi),perché l’amore grida e attende un sigillo, non vuole essere svalutato, vuole e merita la nostra dedizione, costanza, soprattutto nutre l’urgenza di svilupparsi, innalzarsi, crescere, progredire. Se è fermo rimane ad una fase illusoria, non si arriva a godere dei suoi frutti, non si arriva a toccare il fulcro, il perno che tiene insieme tutto e permea con impetuosa dolcezza le nostre vite. Meglio così, sì, ma attenti a non scambiare “il latte per panna” quando arriverà l’ubriachezza di un forte sentimento e riverserete la vostra visione romantica di coppia in un matrimonio che non può funzionare senza le giuste basi. L’amore è una scelta, la persona si frequenta (un annetto andrà bene), per capire e confrontarsi su tematiche importanti: come impostare un fidanzamento, castità, matrimonio, sessualità, educazione dei figli, cammino spirituale… sono le risposte che avrete da questi dialoghi insieme con il corteggiamento nobile (andate al corso Fidanzati di padre Giovanni Marini ad Assisi per saperne di più!) che vi aiuteranno a valutare e capire se quella è la persona con cui Dio vi pensa.

Dio sa eternamente e dunque eternamente vi pensa insieme a qualcuno. Perché ciò che conta è il sacramento, il patto, la promessa sigillata e benedetta. Dio vi pensa con quella persona con cui stringerete alleanza, il resto sono chiacchiere da bar. Una
volta sposati saprete con certezza che la persona è proprio quella, non dovrete far altro che sceglierla ogni giorno rispettando quel vincolo. Questo è l’amore, quello che si sceglie. Il sentimento iniziale, la cotta, la scintilla, ti capita e basta… l’amore va costruito.

Quello che si rifiuta “di prendere il mutuo” e che vuole abitare l’altro abusivamente crolla.

“Altrimenti ci arrabbiamo” di Francesco e Rachele

Improvvisamente anche l’essere inchiodata a quel lettino in sala parto passa. Il temuto giorno passa. Ti ritrovi un po’ rotta davanti al portone di casa, accanto a te tuo marito con in braccio una vita. E adesso? Nove mesi di controlli, analisi, ecografie per monitorare la situazione, per salvaguardare e proteggere. Ed ora? Sei fuori, sei al mondo, chi veglierà che tutto andrà bene?

Che si fa? Si apre la porta di casa e si vive. Ora bisogna vivere, crescere e noi invecchiare d’amore e di sonno tra rigurgiti, pannolini, pianti notturni e profumo di bambino. Impastato di carne e sangue miei e di tuo padre, l’odore del tuo respiro, sei qui, posso stringerti e osservarti, impressionandomi nel rivedere in te tutte le mie espressioni, occhi che guardano dentro e scavano. Non siamo proprio quegli eroi che forse tu credi…

Chi sei e chi siamo noi per te… Generato nel corpo, affidato a noi da un Padre che è Figlio. In quel lettino di ospedale ti hanno posto sul mio seno nudo e ventre svuotato, nato sporco, figlio nel dolore, ti ho stretto a me così come eri, insanguinato e attaccato ancora da un cordone, ombelico, segno tangibile dell’origine, viscido, nuovo al tuo stesso respiro. Ti ho stretto. Ed ho avuto paura.

Come si fa a non tremare dinnanzi a tale mistero svelato? Mi guardi e non sai ancora. Mi guardi e sembri riconoscermi. Sorridi nel sonno senza averne coscienza, tu che respiravi dalla mia pancia ed ora sul mio cuore, tuo padre ti rimbocca le coperte e ti benedice sulla pelle.

Una manina fredda ti stringe per la prima volta le dita e sai che tutto il calore che emani serve solo a scaldarlo. Un papà che tocca il suo miracolo, lo sfiora delicato e lo sostiene con forza, avendo quasi il timore di romperlo – Come posso abbracciarti? Come stringerti al mio petto? Dammi la mano e fidati di me – «Ho imparato che quando un neonato stringe per la prima volta il dito del padre nel suo piccolo pugno, l’ha catturato per sempre». (Johnny Welch da “La marionetta”).

Amore viscerale, sanguigno, legame capitato e perdonato da una diversa libertà. Ecco cosa sei piccolo germoglio, una libertà differente che ci perdona e allenta il nodo stretto dell’egoismo.

Ti amiamo, papà e mamma.

 

 

“Altrimenti ci arrabbiamo” di Francesco e Rachele

Ciao marito,
se leggerai questa lettera quasi d’addio (ma soprattutto d’amore) – che non hai visionato ancora – è perché siamo vicini al grande momento, il parto. Ora immagino già la tua espressione che mi rimprovera per dirmi “smettila con queste baggianate moje!” mentre invece ti tocca leggere, senza chiudere il discorso.
Un appuntamento con l’esistenza, che tu, amore mio, sai quanto mi turba. Nessuno pensa che mettere al mondo una vita presupponga il rischio di offrire la propria, ma tu sai anche quanto io sia melodrammatica ed egocentrica, quanto io prenda in considerazione tutte le variabili del caso, seppur in questa occasione remote e lontanissime, direi quasi chimeriche, e siccome i miei modelli di sposa e madre… beh, sappiamo come Santa Gianna e Chiara Corbella abbiano affrontato tutto… allora ci penso. Penso al più temuto tabù del “Chissà come andrebbe se…”. Eh sì marito, sono pesante con questa storia, lo so… ma quando si parla di vita non ti viene subito in mente il suo contrario? La morte va a braccetto col vivere. Non è così? Inevitabilmente si mescolano tra loro e io non voglio che sia un tabù. Io non voglio che il mio morire un po’ diventi il pensiero da scacciare ad ogni costo, anzi, voglio entrarci dentro per capire, riflettere sul suo mistero.
Morire, vivere… che differenza fa quando quell’esserino esce a guardarti per la prima volta? Quello sguardo è già tuo, quell’amore ti ha catturato per sempre.

Vorrei dirti tante cose, spero che nella nostra quotidianità abbia potuto dirti quello che ho dentro, spero tu abbia ascoltato e impresso nel tuo cuore l’essenziale.
Questo giuggiolino è il frutto visibile di quel mondo che abbiamo in comune, di quell’amore che rapisce, che ci ha rapiti e che abbiamo scelto. Ti ho scelto e mi sono lasciata scegliere e ti ho scelto nuovamente. Non so cosa mi attende, quale viaggio, quale amore… ma prego e so che un assaggio del paradiso io l’ho gustato. Qui, con te, con voi. In queste piccole case che abbiamo abitato, c’era la grandezza e l’emozione di scoprirsi famiglia, e ogni piccola casa era un focolare acceso. Voglio dirti che io sono felice, me ne andrei felice, perché ho amato. Amato davvero, amore mio. E non perché egoisticamente ho raggiunto il mio personale obiettivo, ma perché so che ho lasciato che anche tu amassi davvero per la prima volta.
Me ne andrei sapendo di aver fatto quel qualcosa di buono che tanto cercavamo, quel qualcosa da lasciare al mondo. Forse per il mondo non è tanto – quanto vale una vita ormai in questa terra? – mea l’amore, la verità, quella non ha prezzo, il suo valore riflette l’immagine di nostro Signore. Indelebile, cruda in tutta la sua trasfigurazione, bellezza pura. Eccolo il mio paradiso, tu, voi, i miei cari amori più grandi, la mia famiglia. Ciò che mi rende pienamente me, le mie relazioni, le mie radici. Chi sono?

Quello che so, innestata in un tralcio di vite lunghissimo, è che insieme abbiamo intrecciato qualcosa di nuovo e familiare, dato vita a nuove ramificazioni, relazioni, aria nuova e amore circolante. Io ti amo, e mai ho amato prima di te. Solo immagini vacue e riflesse dell’amore. Lo ribadisco, che tu sei l’amore, in te Cristo si offre, in te mi santifico, in te compio la mia, la nostra, vocazione sponsale. Unione visibile nella carne e invisibile nell’indissolubilità, cassaforte affidata alla grazia divina.
Eh sì amore, perché se io me ne andassi, mi piacerebbe che tu ricordassi soprattutto il nostro essere sinceramente due rincoglioniti. Mi piacerebbe che ti mancasse la mancanza del dolore alle mani per tutti i massaggi alla schiena e grattini che ti elemosino, tutte le volte che mi scaldi il latte (senza lattosio) al mattino, tutti le volte che ti supplico di non andare in bagno, per rimanere con me sul divano, la sera (perché ci metti sempre un’ora e il film finisce e io mi annoio ad aspettare), i libri di fiabe e i quadri che ti faccio appendere, le volte in cui studiamo insieme, in cui cuciniamo insieme, le facce buffe, le vocine cretine, i nomignoli idioti, tutte le volte che non mi riesce qualcosa e con fiducia ti dico “fa’ tu!” (come aprire i barattoli, sistemare qualcosa al pc, gli ordini su internet o occuparti delle mie tariffe telefoniche di quei ladri della Tre!), quando mi cambi i cerotti, le volte in cui rimaniamo a parlare di una qualche faccenda per ore, fino a notte fonda, quando discutiamo appassionatamente. Vorrei tu ricordassi il segno di croce sulla fronte, il toccarci le dite dopo averle immerse nell’acqua santa in chiesa, le mani intrecciate una sopra l’altra sulla ringhiera quando, vicini, siamo inginocchiati in Porziuncola, le passeggiate al roseto e al bosco di San Francesco. Non vorrei che tu, mai e poi mai, dimenticassi gli occhi negli occhi. Il non lasciare la presa. Quando siamo arrabbiati, quando siamo impauriti o commossi, ma decisamente non scordare mai gli occhi negli occhi mentre trasmettevamo la vita.

Una delle ultime cose più belle condivise, che vorrei tu non scordassi mai, è raccontata in questo post che scrissi in un gruppo di tante donne in cammino come me, nel nostro Giovedì Santo, te lo mostro:
“Questa sera non sono potuta andare alla santa Messa perché essendo alla 39esima settimana di gravidanza ero piena di acciacchi. Con mio marito abbiamo perciò seguito lo streaming della Porziuncola. Durante l’adorazione eucaristica abbiamo pregato insieme, poi abbiamo lavato i piedi l’uno all’altro in una bacinella, inginocchiandoci, asciugandoli e baciandoli. È stato un momento molto intimo e delicato, fatto nel silenzio davanti al Santissimo che era sullo schermo della diretta, atmosfera carica di gratitudine con la piccola lampada calda accesa dove teniamo la nostra Bibbia aperta sulle letture del giorno. Volevo condividere con voi questa esperienza che consiglio a tutte le coppie. Un gesto che si china all’amore e si inginocchia ai piedi dell’altro, accoglienza delle debolezze, delle ferite e ringraziamento del servizio che accompagna la vita coniugale degli sposi, un silenzioso ‘scusami per tutte le mancanze'”.

Ecco, se io morissi, marito mio, amato dolcissimo, egocentrica e melodrammatica quale è tua moglie, mi piacerebbe dirti semplicemente che sarei nel fulgore della Vita, che grazie a te io sono dove sono e sono come sono.
Ci vediamo in sala parto amore, vada come vada, occhi negli occhi!

Tua moglie, sempre ansiosa e sempre rincoglionita, Rachele

“Altrimenti ci arrabbiamo” di Francesco e Rachele

Perché anche nelle semplici faccende domestiche si incontra una trascendenza metafisica. Stirando una camicia, ad esempio, si ha come un’appercezione del senso del servizio. Una tenerezza che invade il cuore, mentre il ferro caldo insieme al vapore ammorbidiscono e stendono quelle pieghe impresse nel tessuto, fino a farlo esplodere di commozione. Quella camicia indossata dal proprio uomo nella quotidianità di un lavoro magari stressante, che accarezza quella carne, che si fonde con la mia nell’incontro, quella carne che genera, che fatica, che è servizio, mi viene consegnata ed io non posso fare altro che occuparmene con orgoglio.

Come si può non scorgere un senso di infinito nel servizio alla persona amata? Come si può intravedere sottomissione – nel senso più negativo del termine – al brutale? 
Quanta dolcezza, invece, attraversa il nostro cuore femminile quando scegliamo di essere mogli e madri, quando cioè scegliamo ciò per il quale siamo state da sempre pensate: amare, accogliere, portare in grembo un essere libero, un totalmente altro da noi, che non è il prolungamento del nostro utero, non un capriccio ottenuto, un forte desiderio palesato, ma servizio nella natura più intima alla quale siamo profondamente e tutte incarnate.

Scoprire che nell’abitudine di una tavola da stiro, in una banale camicia, ad ogni piega lisciata, si nasconde un amore, una carezza sulle brutture dell’altro, quel focolare acceso di cui l’uomo ha bisogno, quel Fuoco sempre vivo e sempre nuovo, inestinguibile, che arde di gratitudine.

“Altrimenti ci arrabbiamo” di Francesco e Rachele

È passato un po’ di tempo dall’ultima volta che ho scritto in questo blog. L’ultima volta vi abbiamo affidato la nostra piccola storia, che è la storia di molti genitori che perdono un bimbo prima che venga alla luce. Questa Luce, in realtà, lui, Giuseppe Maria, la contempla e ne è avvolto e siamo certi della sua intercessione presso il Padre.
Ci avete scritto in tantissimi dopo aver pubblicato la nostra testimonianza, vi abbiamo sentito vicini e abbiamo potuto condividere un dolore che sa di speranza, abbiamo condiviso le paure per il futuro, molte mamme hanno pregato per noi, molte altre ne abbiamo consolate. Volevamo rispondere alle preghiere di queste mamme con una notizia già annunciata di recente: il Signore ha deciso di farci dono di una nuova presenza nelle nostre vite, una nuova esistenza che cresce e che amiamo infinitamente. Ci accingiamo ad entrare nel settimo mese, è stata una partenza difficile, i timori e la ferita del passato si fanno sentire ed è per questo che ci affidiamo nuovamente fiduciosi alla Sua volontà.

Mi hanno chiesto più di una volta “Cosa si prova ad essere mamma?”… ecco, ci ho pensato in questi giorni e in realtà non riesco bene ad esprimerlo a parole. C’è una frase di D’Annunzio, nella sua poesia “Consolazione”, che sembra appagarmi totalmente in risposta alla domanda sopracitata:
“Che proveresti tu se ti fiorisse la terra sotto i piedi, all’improvviso?”
Cosa si prova se non infinita meraviglia per un dono così grande, un dono che ci spiazza e ci tocca nelle radici più profonde del nostro essere; “essere” per l’appunto. Riguarda qualcosa di estremamente intimo, viscerale, qualcosa di meravigliosamente naturale e armonioso. Qualcosa che viene all’esistenza o meglio che Dio stesso chiama all’esistenza attraverso il nostro Sì.

La meraviglia per questa piccola cosa, piccola perché è così che funziona, piccola perché è la normalità delle cose, ma estremamente grande nel suo significato, sembra perdersi oggi di fronte ad una banalizzazione mostruosa ed il pensiero corre subito a chi questo mistero lo vìola. Ci dicono che la maternità è per tutti indifferentemente dall’essere uomo o donna, è il periodo della svendita, proprio quando noi donne dovremmo gelosamente proteggere quel mistero che ci rende madri, oggi si slega la maternità dal corpo, quasi come fosse una piaga, per poi usufruirne al bisogno. Programmiamo tutto, abbiamo bisogno di avere sempre tutto sotto controllo, la laurea, la casa, il lavoro stabile, un compagno… procediamo per tappe conquistate e pianificate senza mai lasciarci sorprendere e toccare da quel piano di Dio per noi, che si svela passo dopo passo, che richiede fiducia in un’esistenza non incasellabile, che sfugge spesso alle nostre previsioni.

Poi in “vecchiaia” reclamiamo il famoso mistero, ormai svenduto a prezzi stracciati, nel logorio del tempo che scandisce i cicli del nostro corpo. Ci imbottiamo di anticoncezionali, bulimici di una sessualità ignorante della bellezza della donazione e della comunione dei corpi, privandoci di quella vera confidenza che lega due persone nei dettagli di apertura e conoscenza del corpo, dei ritmi dell’altro, attraverso i periodi di fertilità. Non c’è vera donazione quando questo non avviene, non c’è vera unione quando non si rischia ragionevolmente di spendere la vita a coltivare quei frutti visibili dell’Amore donato. La sessualità ha un valore che l’essere umano, spesso, ignora o preferisce ignorare, un potenziale che scacciamo come la peste. Un valore che non dovrebbe negare l’altro, cosificarlo e rinchiuderlo negli egoismi, ma liberarlo: questa libertà avviene quando responsabilmente gestiamo un’intimità in un contesto maturo e magari benedetto, come nel matrimonio, seguendo quei principi cardine che la Chiesa ci indica con immensa sapienza: il principio unitivo e procreativo. Che non significa cercare di figliare ad ogni amplesso, significa non chiudersi nell’egoismo, servirsi dei periodi di castità e di fertilità, che non chiudono categoricamente la possibilità a Dio di servirsene per farci un dono, ma c’è una ragionevole fiducia e soprattutto quell’apertura richiesta che consapevolmente possiamo gestire attraverso la conoscenza del nostro corpo.

Quando parliamo della sessualità in questi termini ci vedono come alieni venuti da un mondo sconosciuto, mentre in realtà queste persone non sanno di privarsi dell’Amore vero, totale e liberante. È attraverso questa responsabilità che i frutti fanno capolino nelle nostre vite. Purtroppo recidiamo i germogli come fossero piante infestanti, a forza di recidere intacchiamo quei rami fino a seccarli. Più rami si seccano più la pianta rischia di morire. Questo è il rischio dell’egoismo, questo è il rischio quando violentiamo la natura del nostro corpo che grida vita e noi gli facciamo ingerire pillole di morte.

I frutti sono una benedizione. Che cosa si prova ad essere mamma? Chiediamolo a quelle ragazze che scelgono di abortire, a quelle persone che slegano la maternità dal corpo sessuato, a quelle che vendono i propri bambini, come al mercato, alle coppie che si arrogano il diritto di possedere una vita che non gli appartiene. I figli non appartengono nemmeno a noi che li partoriamo e li cresciamo, figuriamoci se appartengono a chi li compra. I figli sono un dono, sono una libertà differente da noi, possiamo educarla, accompagnarla, ma mai possederla o servircene a nostro comodo. Come dono vanno accolti, custoditi e poi lasciati andare nel rispetto di quella libertà che anela al bene.

Che provano quelle mamme e quei papà che negano e violentano la loro natura genitoriale? Ecco, io lo so benissimo cosa si prova ad essere mamma, una fioritura improvvisa del cuore, un profumo che si avverte tutt’intorno, una disposizione di accoglienza generale verso la vita, non solo verso i propri figli, ma una preoccupazione benevola che riguarda un campo visivo più ampio. Ed ecco perché non posso non chiedermi cos’hanno nel cuore queste donne. La cultura della morte si combatte testimoniando la bellezza della cultura della vita, è così che Papa Benedetto XVI si esprimeva di fronte alle bruttezze e ipocrisie che affliggono la nostra epoca. Cerchiamo di spargere semi di bontà, appelliamoci con urgenza a quelle coscienze addormentate che non sanno di possedere un giardino misterioso che potrebbe sbocciare d’improvviso.a

“Altrimenti ci arrabbiamo” di Francesco e Rachele

Era il 24 febbraio scorso quando commossi, impauriti ed emozionati leggemmo nel test “incinta 2-3” settimane. Io che sono una persona ansiosa, tanto per cambiare, andai in ansia. Sapevo che quel momento sarebbe arrivato, mio marito ed io abbiamo sempre vissuto la sessualità con una sincera apertura alla vita. “Ed ora? sarò una buona madre? sarò in grado di crescere questo bambino? la vita cambierà.. e con la mia salute non troppo stabile? ce la farò?”, avevo paura sì, ma piano piano, di minuto in minuto, iniziava a farsi strada nel mio cuore la consapevolezza di essere diventata mamma. Mio marito ed io eravamo genitori. Una consapevolezza che trasfigurava ogni timore in speranza e gioia. Piangevamo e ci abbracciavamo. Era il nostro bambino. Finalmente entrambi sapevamo con certezza di aver fatto qualcosa di buono nelle nostre esistenze, qualcosa che andava ben oltre la nostra comprensione, eravamo cooperatori di quel mistero grande che è la vita, avevamo “collaborato” con Dio e questa grandezza ci scopriva fragilmente emozionati. Iniziammo a far progetti, a fantasticare sul nome, a programmare le prime visite, prenotare analisi. 13461119_1014877248565319_1943134125_oIniziammo ad orientare le nostre vite per quel germoglio impresso nel ventre. Francesco tornava da lavoro, si piegava già sul mio pancino baciandolo e parlando al cucciolo “sei piccolo come un fagiolino, sei il nostro fagiolino.” Ed io, iniziai sin da subito a cogliere tutti quegli aspetti positivi, quei privilegi, legati alla gravidanza “amore… mi fai un altro massaggio alla schiena? a Fagiolino piace tanto..”. Vivevamo un clima sereno, disteso, di riconoscenza per il dono ricevuto. Sì, la vita è un dono, bisogna amarla con tutto il cuore, con tutte le forze, con tutta la mente.

La prima visita arrivò e anche la dura verità: “è troppo piccolo, non cresce. Proviamo questa cura”. Il cuore mi si spezzò dentro, mi rifugiai tra le braccia di mio marito. Non cresceva, piangevo e avevo come la sensazione che le cose non sarebbero andate bene, “dai, piccolino, cresci, forza!”. Era la sesta settimana di gravidanza, il 3 marzo, quando iniziai ad avvertire quegli strani dolori. Andammo al pronto soccorso, mi fecero una puntura di progesterone ed una visita, alla quale non fecero entrare mio marito, fui trattata con maleducazione e sufficienza, infine mi dissero “questa è una grave minaccia di aborto signora”. Tornammo a casa, chiamai la mia famiglia, mia mamma al telefono soffriva insieme a me. Finì che rimasi per ore in bagno tra le lacrime ed i forti dolori, mentre perdevamo il nostro piccolo fagiolino senza poter fare nulla. Francesco poi lo raccolse. Era mattino ormai.
Non c’è una reale causa all’aborto spontaneo, consultando vari pareri medici ci fu detto che era semplicemente un discorso di probabilità. Il giorno dopo tornammo in Umbria dai nostri cari. Vivemmo il nostro lutto. Seppellimmo Giuseppe Maria in un posto tutto nostro piantando sopra un alberello fiorito.

Perché abbiamo deciso di scriverlo e di rendere pubblica una notizia tanto delicata? Perché noi stessi ne abbiamo bisogno, anche se siamo sereni, anche se abbiamo accettato, abbiamo bisogno di condivisione. Poi, per rendere testimonianza, per dare conforto a quelle mamme che hanno fatto la stessa esperienza. Perché sin da subito, Francesco ed io, ci siamo detti che i figli non sono un segreto e se il Signore vorrà donarcene altri conteremo a partire da quel piccolo fagiolino unico, irripetibile e soprattutto insostituibile. Giuseppe Maria ci ha preceduti nel regno del Padre, lo contempla e intercede per la sua famiglia. I sacerdoti a noi vicini non hanno smesso di ricordarci che questa vita non è perduta, c’è, esiste, ed è tornata a casa. In particolare vorremmo ringraziare padre Umberto Occhialini, don Giuseppe Tanzella Nitti e suor Roberta Vinerba, che ci hanno sostenuti con la preghiera e che hanno avuto parole di vita eterna per noi, di speranza. Grazie a quegli amici preziosi conosciuti grazie a fb, che hanno accolto la nostra sofferenza, Eleonora, Barbara, Gloria, Annalisa, Isabella, Michela, Anita e Giuseppe, Chiara, Fabiana, Caterina ed Elia, Alessandra, Annarosa, Marilena, Nicoletta, Silvia, Riccardo, Gaetano, Luigi, Lorenzo, Sere, Fabrizio, Saimir, don Matteo Riboli… e tanti altri. Abbiamo potuto sperimentare l’affetto e la fratellanza di tante persone. Tutto questo per un minuscolo fagiolino, proprio quello che gli abortisti si ostinano a chiamare grumo di cellule.

Ora vorrei parlare a voi, care mamme che avete intenzione di sopprimere quel minuscolo bambino. Parlo ai vostri cuori, al mistero che vi rende madri. Non ascoltate chi, nella disperazione che state vivendo, vi suggerisce una bugia, un bene apparente. Non cedete. Non macchiatevi di questo delitto, un figlio non si cancella. Possiamo farlo sparire, possiamo toglierlo di mezzo, rifiutarci di amarlo, ma la verità è più forte del nostro egoismo; è un dono, non si uccide, non si vende, non si compra, si ama con infinita gratuità. La vita così delicata, vi si è aggrappata nel ventre, intessuta nel vostro grembo, sangue del vostro sangue. Rivolgetevi alle associazioni pro-life come il Movimento per la Vita, vi daranno tutto il sostegno del quale avete bisogno. Fermatevi a respirare lentamente, sentite la vita che vi attraversa, due persone in un corpo solo, spalancate il cuore, immergetevi in questo miracolo: siete madri!

Mi manchi piccolino, volevo dirti che ti ho voluto bene dal primo momento, che ti abbiamo accolto come il dono più prezioso, spero un giorno di poterti stringere. Volevo dirti che quando eravamo insieme il tempo era pieno, anche se poco, è stato come un respiro d’eternità. Avrei tanto voluto conoscerti, scoprire i tuoi lineamenti, scorgere i tuoi difetti, giocare con te, mostrarti il mondo, tenere la tua piccola mano nella mia. Avrei voluto affannarmi come tutte per mancanza di tempo, ed essere quel tipo di madre con la casa mai ordinata ma che profuma di bucato appena steso. Grazie, perché mi hai dato modo di innamorarmi ancora di più del tuo papà. Vorrei dirti ciao, amore nostro, ti avrei spinto presto fuori dal nido, ma prematuramente ti abbiamo lasciato andare.
Ti pensiamo sempre, ci affidiamo alla tua intercessione; tu conosci i piani e la verità ti è svelata. Mamma e papà.

“Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!”

“Altrimenti ci arrabbiamo” di Francesco e Rachele

Lo sappiamo benissimo, noi donne, quanto sia importante e meraviglioso il momento della scelta dell’abito. Ad una sposa puoi parlare di matrimonio quanto vuoi ma lei sarà concentratissima a sognare ad occhi aperti quell’abito bianco tanto atteso e desiderato. In pizzo, in tulle, in raso, maniche corte, maniche lunghe, scollo a barchetta, collo alto, sbracciato, corpetto sì-corpetto no. C’è da diventare sceme. Ebbene oggi voglio testimoniare alle future spose un’alternativa davvero originale per la scelta dell’abito, quella che ho intrapreso io, modestamente.
Non voglio star qui a scrivere circa i preparativi in generale e del periodo di esaurimento cosmico che precede il grande passo, magari lo farò la prossima volta raccontandovi come abbiamo organizzato il nostro matrimonio francescano; voglio parlarti, cara donna, di quel preciso momento in cui indosserai il TUO abito e saprai che è lui, quello giusto, quello con il quale attraverserai la navata della chiesa andando incontro al tuo sposo che ti guarderà con occhi pieni di meraviglia e commozione avanzare verso di lui. Quell’abito che sceglierai per essere la sposa più bella nel giorno in cui diventerete una sola carne. Sì, inutile negarlo, la scelta dell’abito, per una sposa, nella fase-preparativi, è forse uno dei momenti più belli.

La mia è una formazione francescana come dicevo, avendo partecipato a svariati corsi dei frati di Assisi e al più famigerato corso “fidanzati” di padre Giovanni Marini: “che aspetti a sposarti??? te se secca la patata!!” cit. (Infatti, per non correre questo rischio, io in un annetto scarso ho concluso l’affare col marito!). Significa cercare di organizzare un matrimonio nel quale evitare tutti gli sprechi possibili e gli sfarzi, organizzando un evento sobrio incentrato tutto sul sacramento ricevuto e non tanto sulla mega-festa, abiti da millemilaeuro, bomboniere ipercostose etc etc. Come segno visibile del messaggio che volevamo dare, infatti, abbiamo scelto una chiesa che come unico sfarzo ha un grande tabernacolo d’oro al centro che cattura tutta l’attenzione e l’abbiamo addobbata con tralci di vite e spighe di grano a simboleggiare il pane e il vino della mensa.
Questo non significa di certo avere un matrimonio di serie B anzi, quello che la maggior parte degli amici ci ha detto quel giorno è stato “è una delle poche volte che assisto ad un matrimonio così sentito”. Quando il punto centrale sono gli sposi e Cristo allora è di certo la cosa giusta e soprattutto non può non essere notato dai partecipanti. Tutti gli sprechi evitati andranno poi a formare un bel gruzzoletto di partenza, che è di grande aiuto per i giovani sposi dove una parte verrà poi donata, come abbiamo scelto noi, ad una missione francescana.

Diciamo che io essendo umbra sposa_santa-ritae avendo Santa Rita da Cascia abbastanza vicina è stato anche più facile. L’alternativa che vi propongo (della quale sono solo una portavoce) è di prendere appuntamento presso il convento di Santa Rita per farvi mostrare qualche abito da sposa. Ebbene sì, le suore del convento hanno allestito un atelier con gli abiti ricevuti in dono come ex voto sia da qualche negozio (quindi nuovi), sia da altre spose. Questi abiti si possono prendere lasciando un’offerta, per chi non può andrà bene un’offerta simbolica ma alcune mi hanno raccontato di averlo preso senza lasciare nulla, trovandosi in quel momento in difficili condizioni economiche, ripromettendosi di recuperare la mancata donazione in tempi migliori. Questa è una notizia che ormai si è allargata oltre i confini umbri, gli abiti donati arrivano da tutto il mondo. Meraviglioso!

9744d7e1-c77f-4af1-8128-a0b12a315aabMia mamma mi portò a vedere gli abiti in diversi atelier, credevo che appena ne avessi provato uno sarei scoppiata in lacrime dall’emozione, ne provai diversi ma niente di niente, nemmeno un briciolo di entusiasmo. Continuavo a pensare di dover prenotare un incontro a Cascia oppure di tirar fuori l’abito di mia madre e apportare le dovute modifiche; da bambina ero convinta che se mia nonna fosse stata ancora in grado me l’avrebbe cucito lei da capo a piedi essendo una sarta fenomenale, purtroppo la vecchiaia e la salute non lo hanno permesso. Quegli abiti mi davano solo freddezza, una scelta puramente consumistica, vedendo i cartellini del prezzo poi, questo mi pareva lo spreco degli sprechi. Così mi decisi ad andare. Arrivata in anticipo entrai in chiesa e mi inginocchiai ai piedi di santa Rita, pregai a lungo affidando il passo che Francesco ed io stavamo per compiere, fui invasa da una pace incredibile. Ricordo che fu una giornata davvero speciale. La porto nel cuore e quando ci ripenso mi emoziono ancora.

All’ora stabilita andai al convento, la giovane suora che cura l’atelier è una sarta di gran gusto: mi portò pochi abiti, uno alla volta, dopo avermi guardata bene e averle espresso le mie preferenze: sobrio, fine, in pizzo, maniche a tre quarti e di color avorio. Quando lo vidi mi emozionai, proprio come me lo ero sempre sognato. Lo indossai e non ebbi più alcun dubbio! Era l’abito di una sfilata donato da un atelier9d36a1f2-d16d-4687-92ea-001175d9582d. Era lui, l’abito perfetto, l’abito con il quale iniziare questo cammino, l’abito più bello per lui, l’abito che avrebbe sbottonato dolcemente quella sera, era il MIO abito da sposa. Anche mia mamma, che mi accompagnò quel giorno, rimase colpita ma era anche indecisa con un altro abito, tanto che la suora me li fece portar via entrambi: “quando hai deciso, poi mi riporti quello che hai scartato”. Me ne andai piena di gioia, soddisfatta di aver legato la scelta dell’abito a quel luogo, con l’intercessione di una santa come Rita! Portai poi l’abito ad una sarta, amica di famiglia nonché vicina di casa, per le modifiche. In pochi giorni l’abito era pronto: senza sprechi ma soprattutto con un significato meraviglioso.

Questa è la mia testimonianza, un’alternativa che vi consiglio fortemente: regalatevi questo pellegrinaggio a Cascia! Sarà un momento prezioso che ricordete per sempre! Non ve ne pentirete!

 

Rachele

“Altrimenti ci arrabbiamo” di Francesco e Rachele

Ho appena appreso la notizia che la cantante Adele (ma chi è?!), durante il suo concerto a Copenaghen, avrebbe fatto salire sul palco una coppia di fidanzati gay e con l’occasione (guarda ‘mpò tu che coinincidenzissima!) uno fa la proposta di matrimonio all’altro (manco era organizzato, tutto così naturale! sì-sì!) e che la tizia, la cantante, emozionata (ma de che?!) esordisce con un “Sono commossa. Posso essere la madre surrogata se vorrete avere un bambino? Mi piacerebbe avere un figlio con uno svedese”.

No, dico, MA VI DROGATE?

Il cinismo e la crudeltà più vigliacca di questi tempi mascherati da un vomitevole sentimentalismo da quattro soldi, un’ubriacatura generale che, quando passerà lo stordimento, vi farà piangere sangue. Ma come, anni di lotta “all’oppressione del maschilismo patriarcale” per fare questa finaccia care donne? la fine di mero strumento, un utero che è diventato il vostro cimitero. Incubatrici viventi al soldo di isterici capricciosi ricconi. Vendete i vostri figli donne, siete solo un passaggio nella catena di montaggio. La realtà è che vi rendete complici della compravendita di bambini, questa è la verità che vi fa male e ci volete a tutti i costi tappare la bocca con le minacce di denuncia (magari solo quelle), per martellarci poi i maroni di propaganda: giornali, tv, mondo dei social sono invasi da scenette da copione, tutte uguali, tutte che mirano ad intenerire ed addomesticare il pubblico. Aaah, ma con noi non funziona, noi siamo immuni, a noi la Verità ci ha resi liberi. Siete dei folli se pensate che una società che neghi il valore dell’essere umano possa funzionare. Vi siete venduti perché non siete in grado di controllare i vostri desideri raccapriccianti. Siete dei bambocci che piangono perché non hanno il giocattolino che volevano loro.

Ditemi voi, come potremmo mai dialogare con l’ideologia che vi ha resi così cretini? Come si può tollerare la presenza di un paradigma etico opposto ad una visione promotrice del valore della vita e di una morale pienamente umana?
Ma non lo capite? Ma davvero credete che ci siano sentimenti nobili a muovere l’ingranaggio? Un tizio diceva così: “sò soldi!”. Una società che taglia le proprie radici, come un bimbo sradicato dal seno della madre per essere venduto (sì, venduto!), non può che seccarsi e morire. Un uomo ha bisogno di sapere chi è, da dove viene, per la costruzione della propria identità. Tutto ciò lo state negando e imponete invece una bugia galattica. Si è arrivati a mischiare lo sperma di due omosex (e chissà magari anche più di due), acquistare un ovulo da una donatrice, fecondarlo col mischietto per poi impiantarlo nell’utero di un’altra donna (che firmerà un contratto per sparire dalla vita del bambino o per non rivendicarne la maternità) dietro il corrispettivo di denaro. Una catena di montaggio umana insomma.

MA COME CI SI PUO’ COMMUOVERE CON QUESTA PORCATA?

Cosa racconterete a questi figli? Come vi giustificherete? Le vostre favolette gender, di indottrinamento ideologico di regime, distribuite alle scuole primarie, non reggeranno mica! Potrete ingannare la massa, quella che in fondo una famiglia ce l’ha, quella cresciuta in una famiglia normale, sulla quale avete effettuato un grandiosissimo stillicidio quotidiano… ma a quei bambini comprati ormai cresciuti, che direte? guerreggiate per i vostri diritti che piegano e violentano la natura delle cose alla vostra volontà, ma dei loro diritti neanche una parola. Eppure avevo la vaga idea che l’amore, quello vero, mettesse da parte il proprio egoismo per il bene dell’altro. L’amore è sacrificare sé stessi, i propri desideri e mettere in discussione la propria esistenza per l’altro, fino alla croce. Ma voi, in realtà, non lo conoscete, o fate finta di non conoscerlo per comodità, per giocare alla famigliola felice e sentirvi socialmente accettati, perché la colpa è sempre degli altri brutti, cattivi e bigotti che vi discriminano. No?

Credo invece che siete voi a dover accettare voi stessi, con i vostri limiti, le vostre debolezze, la vostra finitezza. Fin quando giocherete al gioco della vittima incompresa, cercando di intenerire chi vi sta attorno per ricevere tutta la compassione e la pietà, che in realtà vi gratificano tanto, non crescerete mai. Rimarrete delle marionette nelle mani del mercato che sfrutterà ogni vostra debolezza, come il desiderio smodato di un figlio sfociato nella compravendita; che è pure un desiderio naturale quello di essere genitori, ma è qui che deve entrare in gioco l’amore con le sue logiche di dono. Un figlio è un dono, non un diritto. Ma sì, sapete che c’è? Provateci pure, tanto al fondo ci stiamo arrivando. Legalizzate tutto, vendete i bambini, approvate l’incesto, la pedofilia, etc. in nome dell’amore. Tanto l’avete trasformata in una parola vuota e insignificante. Festeggiate la vostra laica democrazia, la vostra libertà, che vi ha resi così schiavi di voi stessi. Ma sappiate che prima o poi il conto arriva e allora, forse, vi renderete conto dell’immensa voragine di miseria che avete nel cuore.

Amos 5,7, “Essi trasformano il diritto in veleno e gettano a terra la giustizia”

 

(testo di Rachele Bruschi)

“Altrimenti ci arrabbiamo” di Francesco e Rachele

Altrimenti ci arrabbiamo, secondo me.

Il titolo lo ha buttato lì il marito, fosse stato per me sarei stata indecisa altri 7mesi. E comunque ci tengo a dire che io avrei scelto un più bonton “la taverna dei nostrismi” o “la locanda degli asini” e robe intellettuoalodi magnerecce di questo genere.

Altrimenti ci arrabbiamo però è una figata, anche perchè di arrabbiature sono cintura nera terzo dan, mentre lui lo è nei film di Bud e Terence, molto più di me. Ma sì, infondo mi suona bene, quasi mi piace. Non era proprio lo stile che avevo in mente. Maschi. Giorni fa ha pure mangiato fagioli dalla scodella; da lì, il passo è stato breve al crearne un bel collage.

Effettivamente non è che abbia un marito incazzoso, direi tutto il contrario: mite, paziente, dolce. A differenza mia. Delle volte ci prova pure ad arrabbiarsi, quando decide ad esempio di farsi rispettare in una discussione, allora diventa fermo e deciso, imperterrito. Una volta ha pure alzato la voce (contro le mie 3045489416503098415 volte). A me va benissimo anche se lì per lì ci rimango male perché debbo abdicare allo scettro del potere e la vittima inconsapevole che è in me quasi si offende di tanto coraggio brandito nello sfidarmi. Mi hanno detto che però bisogna lasciarglielo questo potere. Il matrimonio funziona meglio così. Confermo. Vedere il proprio marito impuntarsi sulle cose “perché è così, ed ho tutti i motivi per dimostrarti che ho ragione” ha un certo fascino, io da moglie, posso sempre estrarre il jolly: mi avvicino e lo avvinghio a me per far la pace. Funziona sempre. Solo che questa è una tattica che sfodero solo quando non posso andarmene sbattendo la porta. O la pace o la guerra. A me piacciono entrambe perché poi tanto ci si ritrova per forza la sera a guardarsi negli occhi e fare quel piccolo ma potente segno di croce sulla fronte dell’altro prima di dormire che tutto scioglie nello stomaco e tutto aggiusta. Aggiusta: perché ci ricorda di alzare gli occhi al cielo e che Cristo è garante del vincolo, primo testimone di quel Sì. Anche nella sfida, nelle piccole provocazioni quotidiane si svela la bellezza di un io, si svelano paure, debolezze ma anche semplicemente il gioco, il non prendersi troppo sul serio, ma anzi innamorarsi da morire fino a scorticarsi il cuore. Noi donne finte dure, che siamo logorroiche o che cediamo al gioco del silenzio, ad un certo punto, bisogna tirare i remi in barca e lasciarci trasportare, che tanto opporsi è solo uno spreco di forze. L’uomo ci argina, ci racchiude in un palmo, quando ci stringe è come se diventassimo improvvisamente minuscole e lui un forzuto indistruttibile dalle spalle larghissime.

Dal primo giorno che l’ho conosciuto, mio marito, ha iniziato a piacermi sempre di più. Oggi ne sono follemente innamorata, stravedo per lui, ne sono orgogliosa. Mi piace scoprirlo da nuove angolazioni, nuove sfaccettature, entrare nei suoi difetti, capirlo, volerlo amare di più. Alla faccia della storiella che il matrimonio sia la tomba dell’amore; anche se il fidanzamento ha messo a dura prova la nostra relazione per una serie di motivi, che magari racconterò la prossima volta, nel matrimonio siamo fioriti. Dio ci ha presi per mano e ci ha condotti in un luogo meravigliosamente speciale, dove ci si accoglie fino a diventare Uno. Quando una donna sa che il proprio uomo ha questa consapevolezza è la creatura più luminosa del mondo. Quando ci sono basi solide, quando si coinvolge pienamente la volontà di amare, e non solo il sentimento “di pancia”, si arriva a conoscere in profondità l’altro fino a svelare alla persona qualcosa che non sa di se stessa, un aspetto, un dettaglio: ti amo perché vedo in te la bellezza che non sei capace di vedere, ti amo perché per i tuoi errori finirei in croce. Amare con gli occhi di Cristo.

Dopo questa grandiosissima dichiarazione d’amore pubblica, che leggerai di certo, caro marito, ti ricordo che alla playstation sei una schiappa e che a tua moglie allacci giusto le scarpe. Ricordati pure che c’è da portar fuori la spazzatura, altrimenti… altrimenti mi arrabbio io!

Con amore, tua per sempre

Rachele.