Anime in cartapesta

“La metafisica e i cartoon spiegati a mio figlio” di Angelo Mazzotta

(i 2 grammi di Anna)

Il giorno dell’Immacolata capita di ricevere l’annuncio della “ristrutturazione” dell’appartamento in cui vivi tutto l’anno per renderlo (il) migliore e più accogliente in prossimità del Santo Natale. Almeno questo è il sogno ad occhi aperti di mia moglie, accanita spettatrice (secondo me unica) di Fine Living. Ogni occasione è buona. L’anno scorso non l’ha spuntata, ma quest’anno il suo voto vale più del doppio: è in attesa della nostra terzogenita. Per una regola meta-matematica che dal suo stato interessante misteriosamente discende e che tardo a comprendere, ha deciso, democraticamente e nonostante i tre restanti voti contrari, che gli addobbi vanno incrementati e distribuiti secondo un suo insindacabile schema. Tenta di convincermi che un quarto governo rimaneggiato di fila, incomprensibile al popolo, come l’attuale, è talmente “necessario” quanto “capace” di prevedere una possibile detrazione nel 2017 delle spese natalizie per la casa 2016: 65% sulle luci, 50% sull’albero e perché no il 25% sull’acquisto di regali casalinghi “borbonese”. Ho qualche dubbio sui casalinghi. Ma la domanda è un’altra: nessun incentivo per il presepe? No, quello no. Sostiene che è troppo presto, ma è fiduciosa nel quinto rimaneggiamento.

Saranno le sue attuali e abbondanti forme che la rendono profeticamente più attraente ma mi ha convinto. Prendi, allora, gli scatoloni dalla cantina, sposta dei mobili, trova il modo di legare le indomite tende animate del salotto, prova tre volte tutte le luci prima e dopo averle montate (poi fai la giravolta, prova un’altra volta…). Infine passa da Giustacchini per comprare il necessario che manca “sempre”.

Ti affacci dal balcone e misuri l’aggressività dei lumen dei vicini. Quando comprendi che puoi vincere facile, ti bastano 3 mt di luci led per far notare la tua misera ringhiera anche dalla sonda spaziale Voyager 1. Metti in conto che i vicini abbagliati potrebbero tamponarsi a vicenda o alla peggio tamponare la tua di auto, nella sottostante corte, ma è più importante che Santa Lucia, Babbo Natale e la Befana planino in tutta sicurezza sul poggiolo e soprattutto non sbaglino appartamento! Tanto se mi tamponano sarà sempre colpa mia perché non mi decido a costruire un caminetto in casa. Dicevo, oltre alla segnaletica di sicurezza c’è anche un drappo rosso con l’effige di Gesù Bambino Re, di certo sventolando potrà assistere i suoi generosi avio-corrieri sia in fase di atterraggio che di decollo.

Tenendo conto delle fantasiose indicazioni dei più piccoli in casa allestisco un albero la cui base è capace di ospitare regali di varie dimensioni (per la casa di Barby o in subordine per un gatto che faccia le fusa, richiesti dalla secondogenita), ma che la punta stellata non tocchi la soffitta appena ridipinta. Monto le luci volute calde, le palline volute rosse, i fiocchi voluti rossi e poi allontano i pargoli di 6 mt dalla zona rossa: praticamente raggiungiamo la camera da letto trattenendoci a forza dietro la porta, mentre lei, in tutta sicurezza e calma, può finalmente, in una commovente liturgia, impreziosire l’albero con costosissimi quanto delicati oggettini della Thun.

Lei, gridando: Secondo voi sono abbastanza? Non è che non si vedono sull’albero?

Noi: No, no, sono quanto bastano. Li vediamo perfino dalla serratura della porta! Ora possiamo uscire?

Dopo la pista di atterraggio e l’albero rosso-thunnato tocca ai due presepi. Avete capito bene sono due.

Grazie a Dio ne abbiamo uno che per bellezza e semplicità basta posizionarlo su un tavolino, impiegando giusto il tempo per corredarlo con una sorta di involucro fatto di ghirlande in fil di ferro e luci varie. L’intera sacra famiglia e l’angelo sono in cartapesta: statuine pregiate regalateci da mia sorella e suo marito. Sempre regalati, ma di creta, sono anche il bue e l’asinello. Finito il primo presepe, quello pregiato, quello voluto dalla mamma, ostinatamente in salotto con l’albero, siamo passati nella camera della secondogenita. Lì abbiamo improvvisato. Senza fondi e sfondi, sul bianco laminato della scrivania abbiamo piazzato in un angolo una capanna sgarrupata dal tetto verde con Maria, Giuseppe, il bue e l’asinello. Fissato con adesivo, lungo tutto il perimetro, una serie di led a luce fredda (quella era rimasta! Ma a mia figlia sembrano delle lucciole e quindi vanno bene). Sparso gli altri pochi personaggi in plastica. Incollato degli alberelli spogli ai quattro angoli, un pozzo munito di carrucola più o meno al centro. Alla dominus della stanza il presepe piace un sacco e ha promesso alla bambola preferita che presto la farà dondolare su quell’altalena che ha piazzato di nascosto accanto alla mangiatoia. Un posto fantastico dove troverà tantissimi amici, tutti stretti intorno a lei. Il primogenito un po’ triste la riprende: non è vero, ce ne sono pochi! È un peccato non avere altri personaggi in cartapesta!

Piego la testa, attendo che il sangue ossigeni il lobo creativo ed esclamo: Trovato! Li possiamo fare noi! Che so, disegnare, colorare, ritagliare, tenerli su con dei fermagli, incollarli alla meglio. Pensiamo agli eroi dei nostri cartoni preferiti e facciamone delle statuine in cartapesta!

E vai! Si accendono gli entusiasmi e loro due in combutta propongono una lista infinita di personaggi della serie Pokemon: Pikachu, Bulbasaur, Squirtle, Nidoran (lui), Nidoran (lei), Meowth, Poliwag, Lucario. Una sfilza impressionante di mostriciattoli. Alcuni si evolvono, mi dicono, raggiungendo dimensioni e potenze ragguardevoli. All’udire queste parole, non so com’è, mi parte il piglio di Aran Benjo: sono dei meganoidi!

Convoco d’urgenza oltre a Daitarn III anche Goldrake, Mazinga Z, il Grande Mazinga, Jeeg Robot d’acciaio, God Sigma, Gordian, Daltanious, Gundam, Bryger, Ufo Diapolon. Le armi pesanti non mancano. Loro insistono ed io pure e giù fiumi di altri personaggi. Il presepe si sta trasformando in un immaginario campo di battaglia. Orde in movimento provenienti dalle regioni di Kanto, Johto, Hoenn, Sinnoh, Unima e Kalos contro quelle dai pianeti di Fleed, Helios, Marte, Apolon e dalle città di Victor City, Trinity City. Cercano tutte di contendersi la terra di mezzo. Tutti anime giapponesi. Manco a dirlo.

Il termine “anime” deriva dall’abbreviazione di animēshon (traduzione in giapponese di “animazione”), un neologismo utilizzato ovunque ormai per indicare le opere di animazione prodotte in Giappone. Rimanda immediatamente al concetto di “movimento”, di disegni “animati”, resi “vivi” con un artificio. Mi sorprende quanto si presti a far considerare quello di “anima”, cioè il principio spirituale nell’essere umano. I cartoni animati giapponesi sono molto espressivi. La psicologia del personaggio e i suoi stati d’animo sono spesso esternati da colori e forme che in alcuni casi ne distorcono l’immagine, ad esempio riducendo o aumentando le proporzioni della testa, oppure rallentandone i movimenti. Immancabili le gocce di sudore attaccate alle tempie come fossero piume e le lacrime a fontanelle. L’anima sappiamo essere il principio della vita in ogni essere. È dotata di intelletto, memoria, volontà. Anche se spirituale la possiamo scorgere nella carne irrorata dal sangue, perché con questa è misteriosamente fusa e ne garantisce la forma, la vitalità, la mobilità. Un corpo senza anima non si muove. Un corpo senza vita è un corpo inanimato. Nel cadavere le cellule non sono vive, non scambiano sostanze, non si riproducono, sono paralizzate e precipitano in uno stato irreversibile di decomposizione, sono morte. L’anima ha lasciato il corpo e questo immobile si disfa. L’anima è visibile nel movimento anche se questo è impercettibile all’esterno. Quando mia moglie dorme stesa supina al mio fianco, con le consuete mani incrociate sul petto, le gambe dritte ed i piedi gelati, compio un atto di fede (ormai automatico) nel ritenerla ancora viva. I primi giorni di matrimonio, ammetto, ero preoccupatissimo, mi avvicinavo nel tentativo da intercettare almeno un flebile respiro. Ora non lo faccio più, quando smette di parlare so che sta dormendo.

Tornando all’anima, mi incuriosisce il fatto che questa parola abbia radici comuni con quella di “arma”, benché quest’ultima rimandi, in un primo istante, ad un qualunque congegno esterno. È un oggetto che permette al corpo di proteggersi, di continuare a vivere. Piccolo o grande che sia. L’armatura di un cavaliere ha proprio questa funzione, si adatta al corpo, aggiunge alle sue parti del materiale resistente ed è costituita da un insieme di armi difensive (elmo, corazza, schinieri, cosciali, manopole, scudo, ecc.). Goldrake protegge Actarus al suo interno. Le armature proteggono il combattente.

In edilizia si usano delle armature metalliche per dare sostegno alle opere murarie in costruzione, assemblate con tubi accoppiabili mediante ghiere strette con bulloni. Permettono l’edificazione.

Strutture simili vengono usate provvisoriamente per impedire lo scoscendimento delle terre durante i lavori di scavo di una galleria o di un pozzo. Preservano dal crollo. Permettono di addentrarsi nelle profondità.

Ancora, in una fonderia si trovano strutture che rinforzano la parte interna delle forme, soprattutto l’anima di queste, per impedire che subiscano deformazioni durante le manipolazioni e nel corso della colata. Permettono di resistere al calore.

Ci sono infine “armature” che addirittura si identificano con l’anima. Così accade con il reticolato di ferri annegato nel getto di cemento, utilizzato per le fondamenta di solidi edifici. Permettono a di reggere pesi enormi. Studiando per capire come costruirle ho scoperto che le stesse statuine in cartapesta, tipiche leccesi, richiedono un’anima interna che sostenga l’imbottitura. Leggo che dovendo realizzare una statuina alta fino a 70 cm., dapprima con un fil di ferro si costruisce la cosiddetta “anima” della figura, sulla quale con spago e trucioli si modella il bustino, creandone così il corpo. A questo bustino di paglia vengono fissati alcuni elementi in terracotta: testa, mani e piedi. Si stabilisce la posa del bustino e poi lo si avvolge con strati di carta fatti progressivamente aderire con colla di farina. Il corpo così ottenuto viene in tutte le sue parti modellato con lo spago, al fine di conseguire una migliore sagomatura. Una volta fatto asciugare, viene collocato su una base e si passa alla vestizione per la quale si utilizzano fogli di carta incollati tra di loro con altra colla di farina. Gli strati si sovrappongono sino allo spessore che si vuole ottenere. Il pezzo si lascia ancora asciugare. Gli abiti in cartapesta, vengono dipinti con colori acrilici e su qualche lembo viene riportata la firma che ne attesta la paternità autoriale. In un pupazzo di circa 25 cm, come quelli regalati, posso immaginare l’utilizzo di un fil di ferro di un diametro poco superiore al millimetro e dal peso di appena 2 gr. Un filo quindi assai sottile ma resistente, tanto quanto basta per sostenere tutto il resto fino al completamento dell’opera. Alla fine è tutt’uno con la cartapesta che lo avvolge, ormai asciutta e capace di sostenere da sé gran parte del peso dell’intera figura. L’anima permette l’ispessimento che la conserva. Senza quell’anima in fil di ferro non avremmo la statuetta!

L’autore, il padre, l’ha plasmata attorno a quel filo. Un filo iniziale che in un certo senso lega sin dalle origini il maestro alla figura, espressione della sua creatività. Un eccesso di moto interiore che l’autore non trattiene per sé ma trasmette all’esterno, al mondo.

Questa eccedenza di creatività genera un pezzo nuovo, unico. Un’opera d’arte che arricchisce il mondo di gratuita bellezza. Una bellezza che desta stupore, ammirazione! La bellezza è splendore di quell’eccedenza che fa gioire, sorridere. Fa star bene perché eleva. Un’abbondanza che straripa e si dona, che è felicità e rimanda ad un rapporto intimo, un legame originario. L’autore regala ad altri una figura mediata della sua presenza quasi a voler alleviare le sofferenze di chi non potrà mai raggiungere. La firma esterna attesta l’esistenza del filo interno donato dal padre. L’opera è come un “figlio” che rimane legato per sempre al padre e ne prova l’esistenza.

“Figlio” è proprio sinonimo di abbondanza. È il di più che giunge inaspettatamente come dono, è la novità che arricchisce e cambia la coppia. La radice indoeuropea di questa parola è la stessa di altre, quali: “felicità”, “fecondo”, “femmina”, “feto”; parole legate alla pienezza, alla vita, alla nutrizione, alla crescita.

La parola “felicità” esprime una pienezza di vita, la contentezza di chi vede appagato il desiderio di essere amato da qualcuno. “Essere felici” ha a che fare con l’essere grati, riconoscenti dell’amore che ci è stato donato, che ci ha generato. Felicità generata e genitrice. Il figlio è la felicità dei suoi famigliari, è per tutti un dono. È felicità in sé.
La parola “figlio” interpella tutti, perché racconta di un’essenza comune, di una verità incredibilmente fondante per ogni persona: siamo tutti figli! La figliolanza è la relazione cardine, che riguarda chiunque: dall’operaio al manager, dall’impiegato al politico, dal giovane all’anziano, dal ricco al povero, dall’uomo alla donna, dal concepito al malato terminale, dal mai nato all’orfano. Nonostante le apparenze e le vicende della vita, rimaniamo figli. Anche fosse per pochi istanti! L’essere figli, unici perché irripetibili, ci accomuna nelle fondamenta, porta l’uomo all’origine della sua stessa natura. È la prima comune esperienza. Tutti abbiamo un padre e una madre! Anche chi non li ha mai conosciuti. Un bambino sorridente è probabilmente la migliore prova carnale di questa radice comune! La Figliolanza è il Filo stesso della Felicità.

Ogni anno, come in un dejavu, il presepe si ripresenta quale location ideale per riscoprire ed approfondire ancor più il senso ultimo di questo intimo legame. Legame non solo tra appartenenti allo stesso genere umano ma anche tra l’uomo e Dio. L’evento clou della Notte di Natale svela il nocciolo duro di tutta questa storia, che è poi la storia della nostra salvezza. Nella mangiatoia di Betlemme, nasce il Salvatore, il Re! Il Cristo per mezzo di Maria rivela a tutti che Dio è anche Padre. Ne svela la paternità! Una svolta epocale! Dio è Padre! La Seconda Persona della Santissima Trinità, si rivolge alla prima chiamandola Abbà, papà. Tutta la Sua vita terrena è un continuo relazionarsi al Padre, lo prega, gli obbedisce e ci insegna a compierne la volontà. Innestandoci in Cristo, facendosi Sue membra, rinasciamo come Figli di Dio. Siamo ricondotti tra le Sue braccia. Gesù si svela essere l’intimo filo che ci lega ad un unico Padre, al Suo. Un solo Padre per tutti! In forza di questo primo legame ci riscopriamo tutti fratelli!

Lo Spirito Santo continua la Sua opera di tessitura del corpo mistico per mezzo della Chiesa, dei suoi ministri, dei sacramenti, dei suoi doni e frutti. Nel mondo tessile i fili dell’ordito si intrecciano con la trama originando un tessuto, secondo differenti modalità chiamate anch’esse armature. Le fondamentali sono tre: tela, saia, raso. Da queste ne discendono altre. Le modalità sono infinite per il sommo Tessitore. Il rapporto d’armatura è il numero minimo di fili d’ordito e di trame necessario per rappresentare l’armatura. La scrittura di un’armatura si chiama messa in carta. Lo Spirito Santo scrive e arma il tessuto in maniera misteriosa, rendendo partecipi anche il nostro spirito. Noi possiamo scorgere, dal di sotto, innumerevoli fili penzolanti, coloratissimi, all’apparenza accoppiati in maniera confusa, incomprensibile, ma un giorno, una volta che saremo passati dall’altra parte, rimarremo ammagliati dalla bellezza di un magnifico arazzo frutto del sapiente intreccio delle nostre vite con la grazia divina. L’armatura perfetta è la comunione con lo Spirito, è la giunzione di tutti i pezzi, di tutte le anime all’unico Filo. L’armatura ha come fine il raggiungimento della salvezza di tutte le anime. Veste ognuna, tutte e tutto.

È questione di fili, di anime, di armature, di colla, di legami intra ed extra omine.

L’uomo re-ligioso è un essere naturalmente e misteriosamente legato ad un Re, ad un Regno e a tutte le creature che lo popolano. Sperimenta, spesso inconsciamente, legami che lo conducono mediatamente ad un Sovrano. L’Onnipotente, che è anche Padre, ha nascosto nelle nostre anime un richiamo alla sua Presenza. Nel nostro dna spirituale contiamo anche i suoi cromosomi. Ci educa alla consapevolezza del nostro regale e filiale destino, dell’eredità eterna a cui siamo stati chiamati fin dal primo giorno in cui ci ha pensato. Siamo eletti, tutti! Volenti o dolenti siamo legati alla Sua volontà. Ci tratta da persone tanto degne da concederci addirittura la libertà di tagliare questi fili, avvisandoci peraltro delle terribili conseguenze. Così facendo rischiamo infatti di rimanere “divisi”, soli, indifesi senza difensori. Non più persone, dagli altri considerate “intoccabili” perché voluti da Dio, ma individui rispettabili finché dura la “carta” che contrattata tra orfani litigiosi, dovrebbe salvaguardarci. Una carta senza anima, che rischia di marcire, di essere travolta e stravolta ai voti, frantumata, pestata non tanto più da stivali da guerra quanto da scarpe griffate, spesso sorrette da affilatissimi tacchi. Presumiamo di essere tutti re ma siamo un ammasso di cose. Abbiamo perso l’anima, il movimento, la difesa.

I fili, riconducendo ad un unico Padre invece nobilitano, danno spessore, animano, reggono, elevano, proteggono, mettono in movimento. Fili che di generazione in generazione esprimono nella carne umana quella filialità divina che rende sacri. Discendenza regale, baluardo di sacralità!

La vita è tanto dura, lo sappiamo. Oggi più che mai regna la confusione. È tutto così paurosamente altalenante. Il nostro sedile ci sembra non sicuro. Le due funi a cui disperatamente ci aggrappiamo appaiono lunghe e slegate da una solida struttura. Angosciati andiamo su e giù nel vuoto ed il naturale moto della vita, con i suoi alti e bassi, ci terrorizza. Lasciarsi dondolare appesi al ramo di un albero richiede l’uso di ansiolitici. Il sorriso segue una prescrizione medica. Giocare è uno sport estremo e l’altalena è per gli audaci. Non badiamo più al ramo, all’asse orizzontale, al filo essenziale che garantisce la direzione e il divertimento.

Vagabondiamo senza posa pur stando spesso fermi. Siamo come spole impazzite, convinte di poter fare a meno di una navetta che ci guidi. È tutto inestricabilmente aggrovigliato. Abbiamo perso il bandolo della matassa.

Siamo come pupazzi che non si reggono in piedi. Marionette agitate dal bullo di turno. Solo carta pestata a sangue. Brandelli scoloriti, bagnati con colla scadente. Frammenti che si perdono per strada. Piegati, depressi, provvisoriamente appiccicati a tutto, tranne che all’unico vero Filo della Felicità, quello che ci consacra Figli di un unico Padre che mai smette di amarci!

Dovemmo riscoprire quei due grammi che abbiamo chiusi nell’anima. Per tornare a sorridere, a giocare. Per trovare una casa, un nido su cui posare. Per riscoprire tanti fratelli, tanti amici.

Ecco, oramai Natale è prossimo! E sarà bellissimo! È proprio l’epifania della nostra filialità.

Mio figlio: Papà, quanto la fai lunga!! Se ci mettiamo a fare la cartapesta di tutti questi personaggi finiremo a Pasquetta! C’è almeno un anime in cartapesta che più di altri si presta a far da figurante nel presepe?

Mia figlia: Pelò voglio una femmina! Che giochi sull’altalena con la mia bambola e non sia allegica ai gattini di peluche.

Io: Mhhh! Trovata! Ha le lentiggini, i capelli rossi, due occhi limpidi, è orfana ma non si dà per vinta.

La vita è stata dura con lei sin dalla tenera età. È passata da una famiglia all’altra fino a raggiungere i fratelli Cuthbert: Matthew e la sorella Marilla, interessati per lo più all’adozione di un ragazzo che li aiuti nei campi. Non è bene accetta, ma si convince e convince chi le è attorno che le apparenze spesso ingannano, l’aspetto è secondario al valore che una persona ha in sé. La delusione per le ingiustizie subite la spingono ad usare la sua fervida immaginazione, inizialmente come via di fuga, man mano cole mezzo per realizzare sogni e aspirazioni. Inventa e da nomi a ogni cosa per viverci meglio assieme. Si sente sempre più parte di un tutto meravigliosamente armonico. È felice. Impara a considerare le disgrazie come strumenti di elevazione, di successo. Matura a tal punto che è grata anche per i dolori che la vita provoca. Giunge a vincere una borsa di studio, un traguardo importante per la sua epoca, ma ha anche la forza di rinunciarvi per assistere Marilla, rimasta sola dopo la morte del caro Matthew. Una ragazzina insomma che divenuta donna non smette mai di essere felice sull’altalena!

Ecco la sigla! Intanto armiamoci del necessario ed incominciamo.

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