La società del crimine perfetto

(articolo di Emiliano Fumaneri uscito su La Croce Quotidiano)

Nel 1926 il grande pensatore spagnolo José Ortega y Gasset scrisse una serie di folgoranti meditazioni sui «castillos», cioè sui castelli. Nella civiltà dei castelli Ortega vedeva il segno del coraggio personale, dello slancio vitale, dell’impegno generoso. L’attenzione di Ortega era stata attirata dalla forza interiore che aveva ispirato gli uomini che la costruirono. Cosa li muoveva? Ortega non faticò a capirlo: a muovere quegli uomini era stato il loro animo barbarico: uno spirito guerriero, quella disposizione d’animo che spinge a correre il rischio insito in ogni impresa.

Il guerriero sa bene che l’azione comporta dei rischi, ma questa consapevolezza non è per lui motivo sufficiente da giustificare il disimpegno. Nello spirito guerriero l’impulso dell’azione prevale sul timore del pericolo. Correre dei rischi non è un buon motivo per non mettersi in gioco, diremmo oggi.

Ciò spiega perché quegli uomini costruirono i castelli: il castello è un’abitazione fortificata, pensata per una vita quotidiana dove il rischio della lotta è costantemente presente.

Senza lo spirito guerriero non avremmo avuto la cavalleria medievale. È nel mondo barbarico che si manifestano le sue tracce embrionali. La società germanica è una comunità di guerrieri imperniata sul valore militare, che venera il cavallo (insostituibile compagno di battaglia) e le armi (che talora hanno un’origine mitica e un nome sacro sul quale si pronuncia un giuramento). Sotto molti aspetti l’esaltazione germanica delle virtù guerriere preannuncia i codici cavallereschi della società feudale. Non si esagera dicendo che il cavaliere è il guerriero teutonico cristianizzato.

C’è però uno spirito che si contrappone direttamente allo spirito guerriero: è lo spirito industriale, con la sua etica delle cose, con la sua insistenza sul calcolo, sulla prudenza. Qui a decidere, per contro, è la considerazione del pericolo: la coscienza del rischio porta a considerare la vita come una perpetua cautela. Lo spirito industriale è quello di un amministratore fin troppo oculato, quasi manicale nella sua preoccupazione di conservare l’esistente.

In definitiva, osserva Ortega, i due spiriti nascono da sensazioni vitali opposte. Nello spirito guerriero pulsa un sentimento di fiducia in se stessi e nel mondo circostante. Il guerriero è un uomo che ha grande fiducia nei propri mezzi, come accade agli spiriti giovanili, pieni di vigore e di energie. Non è strano perciò che il Medio Evo avesse una concezione ottimista dell’universo, nonostante una sciocca storiografia ancora oggi insista nel dipingerlo come un tempo tenebroso e angosciato. La realtà, afferma Ortega y Gasset, è che il Medio Evo è stato il tempo delle filosofie ottimiste, aperte alla vita, mentre nella nostra Età Moderna è tutto un brulicare di pessimismi cosmici.

Perché è appunto nello spirito industriale che, viceversa, opera una profonda sfiducia di sé. È un sentimento tipico della vecchiaia, quando le forze vengono a mancare e subentrano paure, fragilità, sospetti. La sfiducia è segno di decadenza vitale. È il sentimento che caratterizza la nostra cultura, dandole quel tono depresso, ripiegato su di sé, quel clima pieno di dubbi, vacillante, così saturo di cautele e precauzioni.

È bene dire che nessuno più dello spirito guerriero è alieno ad angelismi disincarnati. Confida in sé, certo, ma non al punto di ignorare il male del mondo. Conosce benissimo l’angoscia del vivere, la sofferenza lo circonda da tutte le parti. La differenza sta nell’atteggiamento spontaneo che assume davanti alla realtà del dolore e del pericolo: l’accettazione del pericolo nello spirito guerriero porta a correre il rischio, non a evitarlo. Fa sua la morale della «vita alta»: la vita, nell’ottica del guerriero, va spesa al servizio di ideali più grandi della vita stessa. L’esistenza ha significato soltanto se è messa al servizio di qualcosa di più alto. Val meglio una vita intensa e breve che un’esistenza estesa a scapito della sua intensità.

L’esatto opposto di chi organizza le cose della Città con la quasi esclusiva mira di evitare ogni pericolo. E questa, nota Ortega, è la maniera più propria dello spirito industriale – che è quanto dire dell’animo borghese – che subordina tutto allo scopo di non perdere la vita. La morale borghese è una morale della «vita lunga». Ecco perché nella società borghese l’ideale si avvia a essere questo: organizzare il mondo come un gigantesco ospedale e un’immensa clinica.

L’uomo borghese idolatra la propria esistenza. Ne fa un assoluto al punto di voler vivere ad ogni costo, e a questo fine è disposto a estendere la vita riducendola alla sua minima espressione, alla maniera delle specie animali che si immergono nel sonno invernale. È il fenomeno che i biologi chiamano della «vita minima», per cui risulta che «la vita si prolunga nella misura in cui non si usa».

La spinta di questa idolatria della vita è stata tanto potente da portare allo sviluppo di tecniche sempre più sofisticate per domare i pericoli della natura: la meccanica, che diminuisce lo sforzo umano; la medicina, che contrasta le malattie; l’economia cooperativa, con le sue casse di risparmio e le società di assicurazioni che garantiscono una copertura materiale alla vita umana. La società borghese finisce così per assomigliare a una gigantesca civiltà della previdenza impegnata ad assicurare all’individuo una vita lunga e confortevole.

E difatti è quanto accade in Occidente, dove si vive sempre di più (la longevità è passata dalla media di 30 anni in età pre-industriale agli oltre 70 di oggi) ma si nasce sempre di meno. Ogni nuova nascita, in una prospettiva spietatamente individualista, può rappresentare infatti un pericolo: l’irruzione del nuovo nato sulla scena del mondo rischia seriamente di scompaginare i ritmi abituali della nostra esistenza; avere un figlio oggi è considerato poi un investimento economico-affettivo totalizzante, al punto da rivelarsi un peso insopportabile. Per non parlare dell’eventualità – sempre possibile – del figlio malato, che può costituire perfino un danno risarcibile.

La società della previdenza universale si è organizzata anche per questo: per assicurare comfort e vita lunga contro il «pericolo» dei figli. Assolutizzare l’ideale della «vita lunga» ha portato a cancellare la morale della «vita alta». Di conseguenza la società neo-borghese si è organizzata per evitare ogni pericolo, levandosi anche contro quello che proviene dai neo-nati, cioè dai nuovi venuti al mondo.

E ancora una volta è la tecnica a sopperire: il diritto, con la norma che legalizza l’aborto, e la medicina che ne consente la realizzazione pratica. In più si aggiunge anche la morale neo-borghese, impegnata a convincerci della virtù “altruistiche” dell’aborto legale mettendo in campo un abortismo dal volto umano, rassicurante e conciliante, un abortismo dalla mano tesa (e col forcipe ben impugnato nell’altra).

Con l’omicidio legale si realizza il sistema a cui Fabrice Hadjadj ha dato il nome di «società del crimine perfetto». Chi volesse organizzare il delitto perfetto, ricorda Hadjadj, dovrebbe infatti soddisfare le seguenti condizioni:

a) assassinio di massa;

b) vittime consenzienti;

c) autorità complici del crimine, da loro incoraggiato e promosso;

d) la coscienza anestetizzata dell’assassino, convinto d’aver agito per legittima difesa oppure, meglio ancora, perché ispirato da nobili moventi, da un profondo sentimento di bontà;

e) la presenza di un legame stretto, meglio se di parentela, con la vittima.

Soddisfate queste condizioni e avrete la perfezione del crimine.

Il successo è legato a doppio filo all’ordine di grandezza del delitto. Va da sé che più il crimine sarà grave, per quantità e qualità, più sarà difficile cancellarne le tracce. Di conseguenza la perfezione del crimine si accresce in funzione della gravità del delitto perpetrato e dell’abilità da parte del criminale di confondere gli indizi e cancellare le proprie tracce dal luogo del reato. La vera bravura consiste però non solo e non tanto nel renderle invisibili agli occhi dell’autorità, ma anche a quelli della vittima. Il supremo capolavoro criminale sarebbe di eliminare ogni senso di colpa dalla coscienza dell’assassino, il quale avrà pure necessità – e perché non addirittura il diritto? – di andare a dormire con animo tranquillo e sereno…

L’ultima condizione (legame stretto tra vittima e carnefice), che può suonare strana, è invece quella essenziale giacché è necessaria tanto la presenza di una vittima disponibile ad acconsentire, in tutta fiducia, alla propria dipartita quanto un’autorità disposta a concedere il placet affinché la faccenda si svolga nell’asettico contesto dell’assistenza pubblica. L’assassinio “compassionevole” esige, per essere perpetrato con la massima efficienza e in tutta sicurezza, un clima di intima familiarità.

Successivamente occorre passare alla fase operativa, la quale richiede innanzitutto un’ampia “divisione del lavoro” onde coinvolgere nell’omicidio il più ampio numero di soggetti, avendo cura d’assegnar loro mansioni così burocratiche da riuscire a fomentare un clima di generale irresponsabilità. È facile capire la ragione di questa estensione all’universo mondo dell’etica di Pilato. Si tratta di un’opera di anestetizzazione morale collettiva, di modo che nessuno dei soggetti coinvolti possa ad alcun titolo essere ritenuto colpevole. Così tutti, dai vertici dello Stato all’ultimo dei contribuenti, parteciperebbero al delitto di massa ma nessuno sentirebbe il peso della responsabilità.

La società diventa così una macchina per lavare le coscienze, scusandole da ogni crimine. Qual è il meccanismo interiore che trasforma le società umane in micidiali dispositivi di autoassoluzione? È il potere della razionalizzazione: è possibile tollerare il male che diventa abitudine, vizio, solo nella misura in cui creiamo una razionalizzazione per giustificarlo, di modo che il male ai nostri occhi si presenti come il bene. Il prezzo da pagare al lavacro della coscienza è l’inversione della realtà.

Un esempio di razionalizzazione ce lo fornisce Karl Brandt, il medico personale di Hitler e responsabile del Programma T4, il programma di eutanasia per l’eliminazione delle vite “indegne di essere vissute” dei disabili. Davanti al tribunale di Norimberga, Brandt si difese con queste parole: «Quando dissi di “sì” all’eutanasia lo feci nella più profonda convinzione, proprio come ne sono convinto oggi, che fosse giusta. La morte può significare una liberazione. La morte è vita».

È lo stesso meccanismo che consente di dire che l’aborto, cioè l’uccisione della vita più inerme, è una forma di compassione e di amore. Come fa l’analista junghiana Ginette Paris, che arriva a definire l’aborto un «sacramento» e invoca nuovi riti e nuove norme capaci di restituire all’aborto la sua «dimensione sacra». E che dire di quella senatrice americana che in un dibattito al Senato si è premurata di assicurare ai suoi colleghi che abortire i bambini equivale a seppellirli con amore? Se la morte è vita, come diceva il dottor Brandt, l’aborto può pure essere amore. Potremmo proseguire con gli slogan del Socing orwelliano: la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza.

È la conferma che l’individualismo, incapace di dare delle ragioni per cui vivere e morire, presto o tardi arriva ad instaurare l’inferno in terra.

 

(qui il trailer tradotto da Notizie ProVita di un documentario, #HUSH, realizzato da una regista pro-choice, quindi favorevole all’aborto, che però ha provato a indagare la verità su questo tema)

Posted In:

Lascia un commento