Memorie da un Mladifest

di Giulia Bovassi

C’è una straordinaria particolarità propria della nostalgia che ti colpisce appena metti in moto la macchina per tornare verso casa. Partire, ospiti in un Paese che non è il tuo, ma allo stesso tempo è di tutto il mondo, sentirsi a casa propria; tornare, tra visi conosciuti, e posti che sanno tutto di noi, sentirsi estranei. La vedo come una catarsi, non perché il fatto di andare lì ti renda migliori, né santi, ti rende solo più peccatore e allievo dell’arte del perdono, dell’amore, della comprensione, dell’unione, della fede.

L’origine di questi sei giorni non si modifica mai: sulle spalle mi schiaccia il peso della solitudine che, in quanto cristiana, mi trovo a vivere tra le persone che frequento quotidianamente; il timore delle scelte; l’inquietudine delle vicende che accadono; la materialità offerta, accolta, assunta; le battaglie che abbiamo scelto, l’esclusione per un pensiero; la durezza dei sentimenti; l’ignoranza del perdono. Il percorso dal primo giorno all’ultimo, ti mette di fronte ad ognuno di questi aspetti.

Molti mi hanno risposto “io vorrei venire a Medjugorje, ma non ho il coraggio perché mi chiederebbe di cambiare”. È vero, stare qui innesca un meccanismo tale per cui alle tue spalle vengono messe le ali: impari che guardarsi allo specchio dovrebbe essere fatto senza specchio e qui avviene, tramite la voce e gli occhi degli altri, le testimonianze di vita. Impari che il perdono è preceduto dall’amore, che non esiste amore senza sacrificio, che il sacrificio è sofferenza e solo mediante il dono gratuito si può amare, si può soffrire, si può perdonare. Impari che le sventure, portate da casa, forse hanno una luce diversa, un risvolto maggiore. Ti accorgi che nessun male viene dato a chi non è in grado di portarlo, che esso ha una causa, un effetto, un evolversi e che saper scegliere, ottenere una lucidità nella benevolenza delle proprie intenzioni, è il nostro ruolo e Dio in questo ti aiuta, ma non può supportare chi pretende di alzarsi da solo.

Impari che non esiste l’accidente, nemmeno la fortuna, ma gli eventi, i più inaspettati, il caso, non sono altro che la firma di Dio quando decide di restare anonimo. Ti rendi conto che l’umiltà è un mistero eclissato nel mondo in cui viviamo, e ciò, a volte, costruisce, tra il problema e la soluzione, il muro dell’egoismo. Impari che la vita è un dono, il primo dono, l’ultimo dono. Impari che affidarsi è la prova più difficile, ma mai superflua. Impari che nessuno è così povero da non aver nulla da donare e nessuno è così ricco da non aver qualcosa da ricevere.

Al Festival, in particolare, il fiato rimane sospeso perché i giovani da tutto il mondo hanno risposto alla stessa chiamata, cantano, ballano, dialogano, pregano in lingue diverse ma allo stesso modo. Al Festival (e temo accada solo qui) un mare di persone diventano una sola persona, e tu con loro. Un mare di persone non ti fa percepire la solitudine, ti fa goccia. Al Festival respiri un sentimento che ti riempie il cuore e se tu sei lì sei responsabile della sua sopravvivenza. Al Festival, parlare, è cambiare: dalla domanda più complessa, “ciao, come stai?” si scatena la tempesta che ti porti dentro, di frequente le risposte si ottengono così e il silenzio non è poi così silenzioso, se siamo disposti ad ascoltarlo. Sta tutto qui il cambiamento, il più grande miracolo di questa Terra: la conversione del cuore.

 

(scritto di ritorno dal Festival dei Giovani “Mladifest” di Medjugorje lo scorso anno. Quest’anno si terrà dall’1 all’8 agosto)

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